Iraq, quando si attaccano chiese e moschee

A sette anni dalla guerra, la pacificazione è lontana. Le ragioni di un fallimento. Il ruolo delle religioni.
chiesa Nostra Signora del Perpetuo Soccorso

È tornato alla ribalta di prepotenza per l’ultimo, efferato attacco alla chiesa siro-cattolica di Baghdad, più di una sessantina di morti, seguito da una serie di sanguinosi attacchi contro singole famiglie cristiane, spingendo i vescovi iracheni a chiedere con forza di «esercitare pressioni sul governo perché garantisca ai cristiani una protezione adeguata».

Ma l’Iraq dalla fine della guerra dichiarata da George W. Bush non ha più avuto un solo momento di tregua: circa 350 mila morti. Paradossalmente l’unico periodo di relativa tranquillità è risultato quello dei due o tre mesi che hanno seguito la breve battaglia per la “conquista” della capitale da parte degli statunitensi.

 

L’avevo visitata, Baghdad, proprio in quei frangenti. Con l’eroico vescovo Warduni (non riesco a trovare altri aggettivi per descriverlo) avevamo percorso le strade butterate dalle bombe, reso visita ai feriti, apprezzato l’ospedale da campo della Cri, discusso coi vescovi e con leader sciiti e sunniti. A Dora, quartiere cristiano che in queste ore conosce attacchi a ripetizione, avevamo visitato un doposcuola, un laboratorio tessile e una panetteria che la comunità cristiana aveva messo su per dare speranza alla popolazione. In tutti avevo colto la consapevolezza che quel periodo di sospensione non sarebbe durato.

Così è stato, perché la soluzione bellica non aveva sostituito all’equilibrio del regime di Saddam Hussein (peraltro intollerabile per le violenze e i soprusi di cui si vantava) un nuovo equilibrio “democratico”. Il vulcano era esploso, questa era la verità: la maggioranza sciita era uscita dall’emarginazione, l’esercito sunnita vagava allo sbando preda del terrorismo, i cristiani avevano perso ogni protezione. Un disequilibrio durato fino ad ora, e che durerà ancora a lungo, purtroppo. Perché qui gli interessi della geopolitica mondiale trovano un perfetto terreno di scontro. Non di incontro.

 

Anche l’Iraq, come tutti gli altri Paesi del Medio Oriente, è un caso a sé. Il recente sinodo dei vescovi lo ha costatato, pur individuando similitudini tra le varie situazioni e comuni prospettive. La prima delle quali è, purtroppo, l’irrefrenabile emigrazione di tanti cristiani dalla terra che fu culla del cristianesimo.

Bisogna perciò cogliere le peculiarità delle singole situazioni, analizzarle e poi eventualmente esprimere giudizi. È proprio quello che cerchiamo di fare in questo servizio dedicato all’Iraq, in cui proponiamo un’approfondita analisi geopolitica e un’intervista con mons. Shlemon Warduni, vicario per i caldei di Baghdad. Apparirà un dato di fatto che la democratizzazione è fallita, avendo in sostanza ignorato la componente tribale e quella religiosa. Diventerà pure evidente come non siano solo i cristiani nel mirino dei terroristi, ma molti credenti. E così, infine, apparirà chiaro come la strategia politica Usa abbia avuto tragiche falle culturali e militari.

Un Primo Piano redatto per avere a cuore i nostri fratelli iracheni – cristiani, ma non solo –, e per operare affinché le istanze della politica internazionale riaprano il dossier.

Michele Zanzucchi

 

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Cristiani nel mirino

 

di Pasquale Ferrara

 

La guerra grava ancora come un macigno su un Paese dilaniato. La fraternità dei figli di Abramo.

 

Prima di fare una guerra (e non bisognerebbe mai farne) occorrerebbe quanto meno leggere un libro di storia e studiare le carte geopolitiche. In Iraq, Bush e la scuola dei “neocons” avevano immaginato una sorta di democratizzazione dall’alto, che avrebbe dovuto avere un effetto-domino su tutta la regione.

Mentre di “contagio democratico” in quella parte di mondo se ne vede ben poco, da diversi mesi l’Iraq è alle prese, dopo oltre sette mesi dalle ultime elezioni politiche, con una difficile negoziazione per la formazione di un nuovo governo. Si fatica a trovare una formula di governo inclusiva, un governo di unità nazionale che renda equilibrata la rappresentanza degli sciiti, dei sunniti e, su un altro piano, dei curdi. È la dimostrazione che la democrazia non si cala dall’alto, ma che occorre costruirla dal basso, nella società, nelle culture ed anche nelle comunità religiose. E che la politica internazionale conta sugli assetti di un Paese ancora fragile come l’Iraq.

 

Il primo ministro uscente, Maliki, uno sciita, è paradossalmente appoggiato, per ragioni opposte, sia dagli Stati Uniti che dall’Iran, oltre che dalla formazione intransigente di un altro famigerato leader sciita, Moqtada al-Sadr; è avversato dall’Arabia Saudita (sunnita) e da un’importante espressione politica sciita, facente capo ad Adel Abdel Mahdi, alleato con il principale sfidante di Maliki, Allawi, in una coalizione sunno-sciita.

 

In tutto questo, i curdi giocano le loro carte sul controllo della città di Kirkuk sotto l’occhio sospettoso della Turchia. Dunque, l’effetto domino ha funzionato al contrario: oggi sono gli altri Paesi a influenzare l’Iraq. Ricostruire questa situazione serve a capire meglio ciò che sta accadendo in Iraq, sia in termini negativi (le violenze a carattere religioso, gli atti di terrorismo) che in quelli positivi (la faticosa ricerca di una base di democrazia consensuale).

Tra gli eventi tragici ci sono i sistematici attacchi alla minoranza cristiana. Il recente eccidio di Baghdad ne è l’ultimo sanguinoso capitolo. Nel 2003 c’erano in Iraq 1,4 milioni di cristiani tra caldei, assiro-ortodossi, armeni (cattolici ed ortodossi), protestanti ed evangelici. Oggi ne resterebbero, pare, circa 500 mila. Pur nella drammaticità di queste cifre, occorre tuttavia avere coscienza del contesto più ampio, che riguarda la scarsissima tutela dei diritti umani fondamentali e della libertà religiosa di molti iracheni.

In un quadro complicato e rischioso, come quello descritto, da anni gli attentati a centri religiosi e in occasione di eventi festivi riconducibili alle diverse fedi sono all’ordine del giorno. Ad esempio, nel solo febbraio di quest’anno vi sono stati attacchi a pellegrini sciiti che si recavano in pellegrinaggio a Karbala, con un bilancio drammatico di 59 morti ed un centinaio di feriti. Nel 2009 i fedeli sciiti uccisi in attacchi in diverse parti del Paese sono stati quasi 230. In questa tragica contabilità, i fedeli sunniti assassinati tra il 2009 ed il 2010 sono stati oltre un centinaio.

 

La verità è che gli atti di terrorismo contro fedeli delle diverse religioni in Iraq sono parte di una strategia precisa e cinica. Nella grande tensione tra sciiti e sunniti, le minoranze religiose – come quella cristiana – sono oggetto di violenza calcolata. Purtroppo i terroristi sanno perfettamente che colpire i cristiani significa avere una sorta di effetto mediatico assicurato in Occidente.

Tra le conseguenze di lungo periodo dell’intervento militare in Iraq, c’è l’idea di una sostanziale identificazione tra Occidente e cristianesimo. Frutto di ignoranza: da millenni esistono comunità cristiane, come quella caldea, che culturalmente e storicamente appartengono al Medio Oriente e non certo all’Occidente.

Ma per i terrorismi di tutte le fogge i fedeli delle varie religioni sono solo bersagli scelti con cura. Non bisogna cadere nella trappola: se la politica non riesce a proporre soluzioni, la sola risposta efficace è che i fedeli non si combattino, ma facciano emergere la profonda fraternità dei figli di Abramo.

 

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Il baratro è più profondo

 

di Aurelio Molè

 

Nonostante tutto la speranza non muore, sostiene mons. Warduni, ausiliare per i caldei di Baghdad.

 

Un attentato di una ferocia inaudita è stato perpetrato durante la Messa domenicale del 31 ottobre nella cattedrale siro-cattolica Nostra Signora del perpetuo soccorso, a Baghdad. 58 i morti, tra cui dieci donne, otto bambini e due sacerdoti.

«Prego per le vittime – ha detto il papa – di questa assurda violenza, tanto più feroce in quanto ha colpito persone inermi, raccolte nella casa di Dio, che è casa di amore e di riconciliazione. Incoraggio pastori e fedeli tutti ad essere forti e saldi nella speranza». Il papa ha quindi voluto rinnovare il suo appello per la pace: «Essa è dono di Dio, ma è anche il risultato degli sforzi degli uomini di buona volontà, delle istituzioni nazionali e internazionali. Tutti uniscano le loro forze affinché termini ogni violenza».

Abbiamo raggiunto mons. Shlemon Warduni, vescovo ausiliare dei caldei a Baghdad.

 

Come descrivere oggi la situazione dell’Iraq?

«Va di peggio in peggio. La pace e la sicurezza sono lontane dall’essere raggiunte. Anche dal lato delle infrastrutture le cose vanno male: l’elettricità manca anche dieci-venti ore al giorno, il gasolio non si trova, nonostante l’Iraq sia ricco di petrolio. E il costo della vita aumenta ogni giorno. Ma la questione più grave è quella dei rapimenti, delle autobombe, dei kamikaze. I più minacciati sono purtroppo i piccoli, che crescono nella paura, spesso afflitti da malformazioni e malattie incurabili. Non ci sono medici a sufficienza, tanti sono scappati perché minacciati, maltrattati o rapiti».

 

La violenza e la strategia degli attentati fanno pensare ad un attacco ben pianificato…

«È stata una grande tragedia. Nel passato siamo usciti da altri attentati, abbiamo cercato di tranquillizzare la gente: ora il baratro è più profondo. Non era mai accaduto in Iraq un attentato così efferato. Mi fa venire i brividi: giovani, bambini e anziani che vengono trucidati con tale brutalità! Sicuramente era un attacco ben pianificato. I terroristi sono entrati in chiesa come kamikaze, con le bombe a mano e le armi. Chiediamo prima di tutto la grazia di Dio e le vostre preghiere per poter perdonare e per la pace in Iraq. Chiediamo al mondo intero la giustizia per liberare l’Iraq dai terroristi, per poter vivere più sicuri».

 

Dopo l’attentato, chiese deserte?

«Sono andato a visitare gli oltre trenta feriti dell’attentato che sono stati ricoverati in un ospedale gestito dalle suore e devo dire che c’è paura dappertutto. Ma la gente, anche se in numero ridotto, continua, nonostante tutto, a venire in chiesa la domenica. I sacerdoti sono spaventati, ma continuano a fare il loro dovere nelle parrocchie».

 

I cristiani sono i più minacciati?

«La comunità cristiana è, né più né meno come tutto il popolo iracheno, a disagio. Si sopravvive quasi per miracolo. Ma, visto l’esiguo numero dei cristiani, la comunità patisce più di altri le difficoltà. Quindi il numero dei cristiani continua a diminuire, anche se nessuno sa i numeri precisi dell’esodo. Molti si rifugiano al Nord, ma la maggioranza ripara in altri Paesi. Se la situazione non si risolve, c’è il reale pericolo che l’Iraq si svuoti dei cristiani».

 

Il governo vi protegge?

«Abbiamo ricevuto una visita del Primo ministro. Ma speriamo che il governo si impegni sul serio a fare qualcosa di concreto per noi e che dietro le parole non ci sia solo propaganda».

 

Esiste un piano preciso per allontanare i cristiani dall’Iraq?

«Ne abbiamo parlato anche al Sinodo. Sono convinto che ci sia un piano più grande: svuotare il Medio Oriente da tutti i cristiani, ma speriamo che non si realizzi. Se c’è l’unità tra tutti i cristiani, se siamo “una cosa sola”, potremo fare qualcosa di buono per i nostri Paesi.

«Il terrorismo che ci ha colpiti nuovamente viene certamente dall’estero: da tempo è un problema internazionale. Ma è anche una questione interna. Quando vengono catturati dei gruppi di terroristi, le loro identità sono sempre straniere e irachene, insieme».

 

Si è appena concluso il Sinodo del Medio Oriente. Cosa possono fare i cristiani per esservi vicini?

«Prima di tutto l’unità e la preghiera. Chiedere al Signore la pace e la fermezza nella fede per il nostro popolo. Possiamo solo pregare insieme, perché la nostra forza è nell’unità: voglio credere che, se abbiamo tutti una sola voce, il Signore non potrà non esaudirci. Inoltre, vi chiediamo di sensibilizzare l’opinione pubblica perché sia consapevole che bisogna fare di tutto per la costruzione della pace nel mondo e in Iraq. Bisogna sensibilizzare chi ha potere perché la pace venga veramente promossa nell’Iraq, perché con retta coscienza lavorino per la riconciliazione. E che tutto ciò venga fatto presto, molto presto».

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