Iraq alla svolta?

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Aun anno di distanza dagli attentati dell’11 settembre 2001, George Bush invia al Congresso un documento che contiene la nuova visione statunitense dei rapporti internazionali nell’età del terrorismo. Il grande studioso Robert Bellah, che certamente non può essere sospettato di anti-americanismo, nella rivista cattolica Commonweal, a botta calda lo riassume in modo fortemente critico: L’America colpirà ogni nazione o gruppo che considera pericoloso, quando e come ritiene necessario. L’America invita gli alleati ad unirsi in questa impresa ma si riserva il diritto di agire con o senza alleati. Nessuna nazione è autorizzata a superare o anche a eguagliare il potere militare americano, e le altre nazioni sono davvero avvisate di limitare o distruggere ogni arma di distruzione di massa in loro possesso, e ciò include la Russia, la Cina, l’India. Solo gli Stati Uniti avranno larghe riserve di tali armi, apparentemente perché solo noi siamo considerati capaci di usarle nel modo giusto. Il documento reitera l’intenzione di Bush di sgombrare il mondo dal male. In apparenza, ciò in cui perfino Dio non ha avuto successo, l’America riuscirà a farlo(1). È la dottrina Bush: l’affermazione dell’unilateralismo statunitense, la convinzione che gli stati canaglia cioè collusi o deboli col terrorismo internazionale, sarebbero crollati uno dopo l’altro con una specie di effetto domino, e i loro governi autoritari o dittatoriali sostituiti da regimi democratici. Di effetto domino si parlò anche ai tempi del Vietnam e, visto come andò allora, sembra incredibile che l’idea possa essere stata proposta nuovamente; eppure, è andata così. Le tesi contenute nella Strategia nazionale di sicurezza degli Stati Uniti già si conoscevano, ma soltanto come il pensiero del filone neoconservatore statunitense; idee che si potevano leggere, ad esempio, in un precedente libro curato da Robert Kagan e William Kristol su Pericoli attuali: crisi e opportunità nella politica estera e di difesa americana. Idee che diventano improvvisamente, grazie alla situazione aperta dagli attentati, la linea dell’amministrazione. È certamente esaltante, per un gruppo di intellettuali, vedere il proprio pensiero che diventa la linea di azione dello stato più potente del mondo; e si capisce che i neoconservatori abbiano dispiegato tutte le loro forze per dare un sostegno teorico alle decisioni di Bush. Lo sforzo maggiore è stato concentrato nel cercare di dimostrare che la guerra irachena era una guerra giusta, che esisteva il dovere morale di combatterla. George Weigel, nel corso di un dibattito con l’arcivescovo di Canterbury Rowan Williams, un paio di mesi fa dichiarava che l’Iraq era un test urgente per la tradizione della guerra giusta nella sua nuova e pericolosa situazione(2). Chiediamoci allora: come è andato questo test? Una sequenza di errori Decisamente male, se proprio Kagan e Kristol, oggi, chiedono di accelerare al massimo i preparativi per le elezioni in Iraq(3). Perché tutta questa fretta? Secondo il sondaggio più recente e considerato credibile, compiuto dall’Iraq Center for Research and Strategic Studies, l’88 per cento degli iracheni considera i soldati stranieri come occupanti e oltre la metà ne chiede il ritiro. Se si pensa che l’anno scorso solo un iracheno su cinque era contrario alla permanenza delle truppe straniere, e che quasi sette iracheni su dieci oggi approvano Moqtada Al Sadr – che ha scatenato la ribellione nelle città sante -, si ha la misura dei guasti provocati in un anno di dopoguerra. Se si votasse oggi, stando a questo sondaggio, il fondamentalismo potrebbe avere i consensi della maggioranza. Se si vuole evitare questo esito, serve una decisa inversione di rotta, un periodo sufficientemente lungo, prima delle elezioni, durante il quale restituire agli iracheni la fiducia nella comunità internazionale attraverso interventi concreti. Il contingente italiano a Nassiriya ha dimostrato che è possibile aiutare concretamente la popolazione; ma esso ha agito in maniera diversa dagli anglo-americani, con uno stile che riflette una vera tradizione umanitaria. Deve però cambiare lo status delle truppe, che, dal punto di vista del diritto internazionale, è, ora, quello di potenza occupante. Il fatto è che lo spettro del ritiro precipitoso da Saigon, come quello del padre di Amleto, comincia ad aggirarsi per le stanze della Casa Bianca, dove la preoccupazione dominante è diventata quella di elaborare una strategia di uscita. Di effetto domino si parla ancora, ma non in riferimento al crollo degli stati canaglia, bensì per il timore che l’instabilità irachena coinvolga altri regimi, alleati pericolanti degli Usa nell’area mediorientale, quali l’Arabia Saudita e l’Egitto. La stabilizzazione di quest’area costituiva l’obiettivo fondamentale dell’intervento statunitense; i fatti di oggi presentono il rischio che si produca l’effetto contrario: lasciamo sintetizzare la situazione al re di Giordania Abdallah II, il quale, in una intervista alla Abc di metà maggio, parlando di una possibile guerra civile in Iraq, ha affermato che è più probabile oggi di un anno fa e se, Dio non voglia, arriveremo a questo punto, allora tutta la regione sarà trascinata in Iraq. Gli Usa hanno abbattuto il regime di Saddam Hussein, che nessuno rimpiange. Ma quello che si è prodotto successivamente in Iraq ha smentito il significato che questa vittoria doveva assumere, e che Bush si aspettava. Alla vittoria sul piano militare si è accompagnata una chiara sconfitta della visione politica del presidente, che ha bisogno, oggi, per tirarsi fuori dalla palude, anche in vista delle elezioni presidenziali di novembre, proprio di quel concorso internazionale, di quell’approccio multilaterale, di quell’autorità dell’Onu, che egli aveva deliberatamente negato. Bush è costretto a fare oggi quel che doveva fare prima della guerra, al posto della guerra. La politica di Bush non sta in piedi, e trascina nella caduta l’ideologia neoconservatrice che l’aveva ispirata. Ma quali sono stati gli errori seguiti alla vittoria militare? È bene metterli in evidenza, perché ci possano indicare il modo per ripararli. Anzitutto, la coalizione ha smantellato totalmente l’esercito e la polizia di Saddam, per scoprire, dopo, che non era in grado di sostituirli; meglio sarebbe stato individuare immediatamente i responsabili di crimini e estrometterli, salvando il grosso dell’amministrazione; lo smantellamento ha invece creato una massa di insoddisfatti, addestrati all’uso delle armi, animati da un nazionalismo iracheno capace, in caso di necessità, di allearsi con i fondamentalisti. Inoltre, gli statunitensi hanno emarginato tutti i membri del partito del regime, senza distinguere tra coloro che aderivano per convinzione, e coloro che non potevano fare diversamente: da lì un vuoto nei quadri dell’amministrazione civile. In secondo luogo, la coalizione ha imposto, in ruoli di rilievo nel governo provvisorio, rifugiati provenienti dall’estero, sgraditi agli iracheni e considerati marionette della coalizione: una scelta che ha dato l’impressione agli iracheni di recitare un ruolo di contorno nel governo stesso e che ha sviluppato in loro un senso di estraneità. La totale ignoranza della cultura irachena, la brutalità nei rapporti con la popolazione popolazione (arresti di massa ingiustificati, ben prima che scoppiasse lo scandalo delle torture), ma ancor più lo scarsissimo tatto usato nelle perquisizioni, spesso infrangendo norme basilari per il convivere dei musulmani come il guardare una donna a capo scoperto nella sua casa da parte di un maschio estraneo alla famiglia) che ha alienato gran parte delle simpatie e resa insopportabile la presenza di soldati stranieri ormai avvertiti come nemici, hanno favorito la moltiplicazione di focolai di ribellione fondamentalista e l’installazione di centrali terroriste, sia provenienti dall’estero che interne; l’intervento Usa ha creato la possibilità che l’Iraq diventi una enorme base terrorista: cosa che prima, sotto il controllo di Saddam, non era. E che dire del pluralismo religioso antica tradizione irachena? Oggi, sotto le pressioni dei settori più fondamentalisti della popolazione musulmana, i cittadini potrebbero essere obbligati, tutti, a emigrare. Uno scenario non solo possibile, ma a questo punto addirittura probabile. Che fare? La Chiesa cattolica è stata sempre decisamente contraria alla guerra irachena. Un giudizio confermato, purtroppo, da ciò che alla guerra è seguito. Ma che cosa fare oggi? Il problema – ha dichiarato il cardinale Martini – non è di abbandonare l’Iraq, ma di cercare di aiutarlo in modo nuovo; e ha espresso, così, attraverso il proprio sentimento personale, quella che è in realtà la posizione della chiesa. Da sottolineare è il modo nuovo, come appare chiaro dall’intervento del 17 maggio del cardinale Ruini alla Conferenza episcopale italiana, che chiede un cambiamento netto ed evidente: è fortemente auspicabile che trovi adeguato sostegno – anche da parte italiana, con scelte coerenti di vicinanza e assistenza a quel popolo – l’opera intrapresa dall’inviato dell’Onu, Lahkdar Brahimi. Uno dei principali argomenti della chiesa contro l’intervento militare in Iraq, sottolineava che gli Usa volevano ricorrere alla forza prima che tutte le possibilità dell’azione diplomatica fossero state espresse; e che l’intervento unilaterale degli Usa infliggeva una profonda ferita alla legalità internazionale e all’autorevolezza delle istituzioni che la devono garantire, soprattutto dell’Onu. La posizione ecclesiale di oggi non fa che riprendere, coerentemente, la stessa prospettiva, che tende alla soluzione dei problemi internazionali e alla costruzione della pace attraverso il consenso fra le nazioni. Il 30 giugno è la data-limite fissata per il passaggio di poteri al governo transitorio iracheno, scelto da Brahimi, attraverso una lunga consultazione con tutte le diverse forze politiche e religiose dell’Iraq. Se si vuole guadagnare il consenso degli iracheni, dovrà essere un governo veramente rappresentativo. Nel gennaio 2005 si dovrebbe eleggere un’assemblea costituente, che darà vita ad un nuovo governo provvisorio, più legittimato proprio perché espresso da un’assemblea eletta. Entro l’anno, poi, dovrebbe essere varata la nuova Costituzione e dovrebbero tenersi le prime elezioni elezioni politiche del nuovo Iraq. Tutto questo dovrebbe essere stabilito da una risoluzione dell’Onu, da approntare entro giugno. Stati Uniti e Regno Unito l’hanno presentata il 24 maggio al Consiglio di sicurezza: è il testo sul quale si sta discutendo, e che presenta luci e ombre. Di positivo c’è la dichiarazione della fine dell’occupazione; l’autorità della coalizione viene trasferita al nuovo governo transitorio iracheno, che assume una piena sovranità formale, che comprende anche la gestione delle risorse petrolifere, sia pure sotto il controllo di un comitato internazionale: e bisognerà vedere chi avrà il controllo effettivo, data la presenza massiccia di diplomatici e di consiglieri americani che affiancheranno i ministri iracheni.. Le truppe straniere rimarrebbero, come forza multinazionale autorizzata dall’Onu per un anno; la forza multinazionale manterrebbe l’autorità per quanto riguarda la sicurezza del territorio: è una decisione realistica, dato che il nuovo governo iracheno avrà bisogno di tempo per costituire risorse proprie con le quali garantire l’ordine pubblico; ma dovrebbe avere però, già oggi, maggiore potere di intervento sulle decisioni della forza multinazionale. Gli statunitensi, inoltre, considerano un principio inviolabile che i soldati americani rimangano sotto un comando americano, e per questo intendono mantenere il comando della forza multinazionale; e questo è un problema, perché la storia dell’ultimo anno esigerebbe, invece, che il comando fosse ceduto. Il ruolo dell’Onu, inoltre, non appare sufficientemente centrale: sarebbe invece l’occasione, questa, per un rilancio dell’Onu e della sua autorità, dal quale dipende, anche, una questione centrale: la decisione dei paesi arabi di inviare proprie truppe nella forza multinazionale. Settimane cruciali, dunque, quelle che ci attendono; condizionate pesantemente dalla campagna elettorale in corso negli Stati Uniti. Bush e Kerry hanno prospettive molto diverse; il secondo si è impegnato, se verrà eletto, a ritirare le truppe entro la fine del suo mandato. Appare inoltre più disponibile ad una collaborazione con l’Onu e a un approccio multilateralista ai problemi internazionali; sul fatto che sia realmente disposto a impegnare gli Usa nel progresso di una vera comunità internazionale, non ci sono affatto elementi per essere rassicurati, ma la linea Kerry rappresenta comunque un ritorno al tradizionale realismo statunitense, a una difesa razionale degli interessi americani: una linea fortemente criticabile sotto molti aspetti, ma che Bush è riuscito a farci rimpiangere. E l’Europa? È assente. Alcuni paesi europei si muovono, ciascuno per conto proprio. Se l’Europa fosse riuscita ad essere presente nella crisi generata dal terrorismo, come un soggetto politico omogeneo, forse le cose sarebbero andate diversamente. Gli Stati Uniti hanno sbagliato, ma non sono i soli. C’è chi deve imparare dagli errori, e chi dalle omissioni. Speriamo che il futuro porti un riscatto per entrambi. Antonio Maria Baggio 1) Bellah R., The new American Empire: the likely consequences of the Bush doctrine, in Commonweal, Oct 25, 2002, p. 12. 2) Weigel G., War & Statecraft. An Exchange, in First Things 141 (March 2004), pp. 14-22. 3) Kagan R., Kristel W., Democracy Now, in The Weekly Standard, May 17, 2004.

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