Iran, giovani pronti al martirio contro il regime repressivo

Nell’ultima settimana sono stati impiccati in Iran due giovani manifestanti. I tribunali hanno forzato l’interpretazione di una norma della sharia, il reato di moharebeh, la guerra contro Dio, applicando la pena di morte. Lo scopo evidente è quello di schiacciare la protesta a qualsiasi costo.
Iran
Protesta delle donne iraniane per la morte di Masha Amoini (Foto LaPresse)

L’insurrezione contro il sistema instaurato dagli ayatollah conservatori (che hanno eliminato ogni riformismo in qualche modo aperto) è paradossalmente molto sciita. La riflessione sul martirio dell’imam Hussein a Karbala (nel 680) ha dato vita nel mondo sciita, nel corso dei secoli, ad una profonda considerazione per la sofferenza e la sconfitta come elementi positivi della dimensione etica della vita. In ogni sincero credente sciita sono ben presenti il culto del martirio (shahadat) e la disponibilità al sacrificio della propria vita per il bene comune, fino ad opporsi alla tirannia e all’ingiustizia. Nella narrazione del regime questo dovere dovrebbe rivolgersi contro i “tirannici” nemici per eccellenza: israeliani, americani e infedeli.

Il popolo iraniano sembra invece avere collettivamente elaborato una nuova lettura, non prevista: opporsi al regime oppressivo instaurato dagli ayatollah conservatori anche a costo del martirio, per il bene collettivo. Alla fine, sono proprio il potere e l’oppressione del regime a spingere tante persone al sacrificio per la liberazione del popolo. L’opposto della tesi ufficiale caparbiamente sostenuta dall’apparato, per il quale le rivolte sarebbero tutta colpa dei nemici esterni che corrompono alcuni, pochi e disonesti, criminali.

Lunedì 12 dicembre, Majid Reza Rahnavard, 23 anni, è stato impiccato ad una gru con la testa infilata dentro un sacco. L’esecuzione è avvenuta per strada, a Mashhad, una grande città a quasi mille km ad est di Teheran. Emblematico: la parola mashhad, in farsi, significa santuario, inteso come luogo di sepoltura di un martire.

Dopo essere stato massacrato di botte, Majid ha confessato di aver accoltellato e ucciso durante una manifestazione due guardie basij, la polizia morale iraniana. Non vale per il regime la considerazione che i basij avrebbero ucciso da settembre ad oggi almeno 488 manifestanti, secondo Iran Human Rights, più di 500 secondo altre fonti, ovviamente non governative. Un’esecuzione, quella di Majid, con evidenti e macabri scopi intimidatori, dopo che giovedì 8 dicembre era stato impiccato, questa volta in un carcere vicino a Teheran, un altro manifestante, Mohsen Shekari, anche lui 23enne, accusato di aver bloccato il traffico e ferito un basiji con l’intenzione di ucciderlo, per denaro. O almeno, questa è la tesi dell’accusa, quella della difesa non si conosce, perchè difesa non c’è stata. In entrambi i casi, la corte ha dichiarato unilateralmente che si trattava del reato di moharebeh, guerra contro Dio, che comporta la pena di morte.

Il ricorso al crimine di moharebeh sarebbe peraltro una lettura molto pilotata della sharia, che nella tradizione giuridica islamica si riferisce esclusivamente all’ambito della guerra, non a manifestazioni di protesta. E non comporta sempre la pena di morte, come pretenderebbero i giudici iraniani dall’impiccagione facile. Lo afferma nientemeno che un membro del Consiglio degli esperti ed ex capo della Corte suprema iraniana, l’ayatollah Morteza Moghtadai. A testimonianza che anche fra gli ayatollah ci sarebbero voci che dissentono dalla linea intransigente del regime: tolleranza zero verso chiunque non si allinea.

Comunque, pare che l’effetto deterrenza che il regime perseguiva con l’esecuzione dei due manifestanti non si sia verificato: dopo l’impiccagione di Majid e la devastazione della casa di famiglia del “colpevole”, ci sarebbero state persone che hanno avuto il coraggio di scendere in strada cantando: “per ogni persona uccisa se ne alzeranno altri mille”.

Oltre alle condanne capitali (pare siano per ora 12), fioccano sui manifestanti arrestati (sarebbero almeno 18mila) altre pesanti sanzioni: il capo della magistratura iraniana, Ali Alghasi-Mehr, si è vantato delle 400 condanne inflitte a manifestanti nella sola provincia di Teheran: 160 condannati a pene tra i cinque e i dieci anni di carcere, 80 tra i due ed i cinque anni, e altri 160 fino a due anni.

Chi sono i manifestanti che da 3 mesi chiedono con insistenza la fine del regime? Secondo autorevoli osservatori internazionali, oltre alle donne che hanno dato inizio alla protesta dopo l’uccisione di Mahsa Amini, ci sarebbero soprattutto molti giovani e giovanissimi, ragazze e ragazzi. Save the Chilren denuncia, per esempio, che fra gli arrestati vi siano tra 500 e 1.000 minorenni, alcuni addirittura minacciati di esecuzione. Secondo Amnesty International, i minori già uccisi dai basij durante le manifestazioni di protesta rappresenterebbero il 14% delle vittime.

In una interessante intervista di Alessandra de Poli su Asianews.it del 13 dicembre, Riccardo Redaelli, direttore del master in Middle East Studies dell’Alta Scuola di Economia e Relazioni internazionali della Cattolica di Milano, afferma tra l’altro: «Il regime sta decretando la sua fine nel lungo periodo, perchè non può esserci futuro per un Paese che ammazza le proprie nuove generazioni».

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