Interno di coppia fra relitti

Il salotto borghese dell’originale versione di Edward Albee è ora un paesaggio di rovine da Ground Zero, a evocare ideali crollati e rapporti distrutti. Nella vasta landa sabbiosa (dello scenografo Carmelo Giammello) di Chi ha paura di Virginia Woolf? con la regia di Gabriele Lavia, affiorano relitti da discarica, piena com’è di oggetti pietrificati dal fango, e circoscritta da una rete metallica che rimanda ad un luogo di prigionia. Unico punto di fuga una scala di ferro con ampie rampe. In alto insegne al neon collocano l’azione nella Broadway dei teatri. E quel gioco al massacro fra due coniugi che Lavia inscena vuole essere la rappresentazione cosciente dello spettacolo della loro vita privata. Siamo nella casa di George e Martha, impegnati, al ritorno da una festa e grazie alla complicità dell’alcol, in un duello verbale squassante, tenero e violento, dal quale affiorano – dietro il perbenismo di facciata – odi e dissapori di un rapporto di coppia che svelerà una gravidanza isterica, un matrimonio d’interessi, bugie e aspirazioni fallite. Il pretesto che innesca l’azione è la visita di una giovane coppia che altro non è che lo specchio giovanile dei due protagonisti, proiezione del loro fallimento. Davanti ai frastornati ospiti coinvolti anch’essi nel crudele match, tirano fuori frustrazioni, paure, accuse reciproche. Questa amara e disperata messinscena però va oltre la crisi coniugale, per inglobare il declino di valori della società occidentale e consumistica, che ha consumato, svuotandolo, l’amore. E la scenografia assume l’aspetto di un cimitero con un accumulo di oggetti cari alla Pop Art (un monumento di video impacchettati, un juke-box, una cadillac che emerge da un mucchio di terra, una pompa di benzina, un quadro con la bandiera americana, e altro). In questo gran gioco di parole rutilanti – con eccesso di turpiloqui – si destreggiano, affiancati da Agnese Nano e Emiliano Iovine, due attori di razza come Mariangela Melato e lo stesso Lavia. Sempre bravo e inventivo, ma, come spesso accade, eccessivo e gigione; mentre lei sfodera grinta recitativa e vitalità fisica come non mai. Fino a quando, all’isteria subentra un’ansia sgomenta, uno sfinimento dolente. Dopo tanto sbranarsi, nell’immobilità di un letto al cui bordo siedono di spalle guardando nel vuoto lo svanire della giovane coppia, sentiamo la sofferenza autentica di due anime arrese. Giuseppe Distefano Al Teatro Argentina di Roma, e in tournée. La luminosa danza di Pogliani Tre coreografie di diversa data in un unico spettacolo, Venus as a boy, sono esemplari per confermare l’incomparabile tecnica, lo stile personale e il talento indiscutibile di Michele Pogliani e della sua eccellente compagnia. Il danzatore e coreografo romano ha festeggiato così vent’anni di attività presentando tre titoli, fra cui Cyber Queer Lounge, coreografia del ’97 che lo rivelò con grande successo in Italia dieci anni fa dopo aver lasciato New York e la Lucinda Childs Dance Company nella quale si era distinto. E alla signora della danza minimalista americana, luminosa artista dell’astrazione pura, ha reso omaggio proponendo la storica creazione del ’76 Radial Courses, capolavoro del vocabolario di Lucinda Childs, che concepisce la scena come un punto di passaggio, un attraversamento verso mete incognite, una fila di traiettorie che sembrano iniziare dal nulla e finire nell’infinito. Il suo movimento ripetuto e perpetuo, dalle architetture complesse e rigorose, non lascia nulla al caso e all’improvvisazione. Qui vi è un quartetto che, senza musica, batte il ritmo con i piedi, saltella e corre circolarmente in sincrono o sfalsato, in una direzione spesso interrotta da quella contraria. Movimenti identici che si trasformano via via per mutazioni minime, che ipnotizzano e affascinano. Una novità assoluta è invece Venus as a boy, sulle musiche di Steve Reich remixate. La coreografia di Pogliani, dedicata alla città di Rotterdam rasa al suolo durante il Secondo conflitto mondiale e ricostruita da grandi architetti, è astratta, di luminosa purezza. Gioca su una planimetria immaginaria di soli quadrati di luci che appaiono e scompaiono, con dentro i danzatori. In infinite evoluzioni ne riempiono le linee con rigore e perfezione di vigorosa dinamica. Infine un folgorante assolo di pochi minuti Dreams of electric sheep ha rivelato con forza la creatività e la tecnica di Michal Rynia. Sotto un fascio di luce i suoi velocissimi movimenti sembrano percossi da una scarica elettrica che arriva dritta al pubblico. Al Vascello di Roma.

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