India. Corte Suprema e laicità della politica

Alla vigilia di importanti scadenze elettorali in cinque Stati dell’enorme Paese asiatico, definito la più grande democrazia del mondo, il massimo tribunale stabilisce che chi tenta di procacciarsi voti sulla base di religione, casta, appartenenza etnica o linguistica commette un reato. Soddisfazione delle minoranze
Festa della Repubblica in India EPA PHOTO/AFP RAVEENDRAN

Nei giorni scorsi la Corte Suprema dell’India ha emesso una sentenza che potrebbe avere un valore ed un significato storico nella complessa vicenda politica della più grande democrazia del mondo, oltre che conseguenze immediate sulle elezioni locali che si terranno a breve.

 

Infatti, fra febbraio e marzo, in cinque stati del Paese, fra i quali l’Uttar Pradesh, quello con la popolazione nettamente più numerosa, i cittadini saranno chiamati alle urne per il rinnovo delle Assemblee locali. Il contenzioso, su cui l’organo giuridico supremo dell’India era stato chiamato a deliberare, riguarda il ruolo della religione nella vita politica del Paese.

I giudici, 7 in questa occasione, hanno deliberato con la maggioranza di un voto che nessun politico potrà far uso della religione per ottenere voti.

 

Si tratta di un problema assai complesso e, come tale, caratterizzato anche da elementi difficili da comprendere per i sistemi politici occidentali. L’India è, infatti, si proclama, e a ragione, un Paese laico. Il concetto di laicità è, tuttavia, molto diverso da quello tipico francese ed Europeo, in generale, o anglosassone e, pure, è distante dalla laicità kemalista turca, ora messa in crisi dalla gestione del potere da parte di Erdogan.

 

In India laicità significa che politici ed amministratori, e in generale lo stato, sono chiamati a trattare tutte le religioni nello stesso modo senza favorire o discriminare gruppi o comunità sulla base della loro appartenenza religiosa.

 

Il problema chiave sta nel fatto che nel contesto socio-culturale del sub-continente la religione è difficilmente distinguibile dalle altre dimensioni della vita e, quindi, non può essere assente dalla vita pubblica. Non è possibile nella cultura dell’India pensare, come è accaduto in Europa, sia pure in modi diversi, che la religione faccia parte della sfera privata della gente.

 

E’ ovvio che questo ha prestato il fianco a molti dei problemi dell’immenso Paese asiatico, soprattutto, dopo l’indipendenza che ha coinciso proprio con la separazione dal Pakistan (e da quello che è poi diventato il Bangladesh), avvenuta sulla base di criteri religiosi. L’India è rimasto un Paese a maggioranza indù – circa l’80% – ed il Pakistan e il Bangladesh a schiacciante maggioranza musulmana. Ovviamente restano anche altre minoranze (cristiani, sikhs, giainisti, ebrei e appartenenti a religioni indigene).

 

In questi decenni le varie agende politiche dei partiti non hanno mai potuto evitare lo spinoso problema del cosiddetto ‘communalism’, che tende a esasperare le differenze dei gruppi religiosi generando tensioni e scontri, in passato spesso anche cruenti con centinaia di morti, in particolare fra indù e musulmani, ma anche fra indù e altre minoranze (compresi i cristiani e i sikhs soprattutto in occasione dell’assassinio di Indira Gandhi avvenuto nel 1984 per mano di una sua guardia del corpo appartenente a quella religione).

 

Ovviamente i politici, a più riprese hanno saputo giocare questa carta creando non pochi problemi al Paese, come agli inizi degli anni ’90 in occasione della distruzione di una moschea ad Ayodhya nello stato dell’Uttar Pradesh da parte di fanatici indù che recriminavano che la costruzione si trovasse su un tempio dedicato al Dio Ram.

Il Bharatya Janata Party attualmente al governo, guidato dal Primo Ministro Modi, è promotore di un programma politico, l’Hindutva, che mira a fare del Paese il territorio e la nazione degli indù. Proprio su tale agenda politica la Corte Suprema era già stata interpellata nel 1995 ed aveva emesso una sentenza diversa da quella pubblicata in questi giorni.

Vent’anni fa, infatti, i giudici avevano affermato che l’Hindutva, appunto, (ideologia che considera l’induismo un’identità etnica, culturale e politica, in nome della quale gruppi estremisti perpetrano atti di violenza e discriminazione contro le minoranze etniche e religiose) è “uno stile di vita e non una religione”. Si trattava di una concessione che finì per creare ondate di protesta e sentimento di panico nelle minoranze. Il partito, tuttavia, riuscì a vincere le tornate elettorali degli anni ’90 e a governare fino all’inizio del nuovo millennio, quando venne sconfitto dal Partito del Congresso a sua volta esautorato dal potere con le ultime consultazioni di tre anni fa che hanno nuovamente dato una maggioranza assoluta consistente al BJP.

La sentenza di questi giorni non ribalta quella del 1995, ma offre un’importante chiarificazione sul ruolo della religione, soprattutto, in un momento in cui le minoranze, in particolare musulmani e cristiani, vivono nel timore di discriminazioni – già abbondantemente avvertite in diversi angoli del Paesi e in alcuni ambiti della sua vita socio-politica.

Per questo esponenti ed attivisti, laici e cristiani, ma non solo, hanno accolto molto positivamente la decisione della Corte Suprema, sottolineandone l’importanza soprattutto nella fase che il Paese sta attraversando con un governo che si ispira al fondamentalismo indù. Il massimo tribunale indiano ha stabilito che chi tenta di procacciarsi voti sulla base di religione, casta, appartenenza etnica o linguistica commette un reato secondo la Sezione 123(3) del Representation of People’s Act. I giudici hanno anche ribadito che “l’esercizio del voto è una pratica laica” e che “il rapporto tra l’uomo e Dio è una scelta individuale. Allo Stato è proibito chiedere fedeltà in una simile attività”.

Vari esponenti cristiani hanno rilasciato dichiarazioni di evidente soddisfazione, riprese da fonti di informazione come AsiaNews e Zenith. Ram Puniyani, presidente, figura di spicco nel panorama della lotta per i diritti delle minoranze e attuale presidente del Center for Study of Society and Secularism di Mumbai, sostiene che nel 1995 “la sentenza sull’Hindutva aveva creato il precedente politico per l’abuso della religione nell’arena elettorale”. L’attivista ricorda inoltre che nelle elezioni politiche del 2014, quelle vinte dall’attuale primo ministro Narendra Modi, è stato proprio il premier a “enfatizzare il fatto che fosse indù. Queste dichiarazioni hanno indebolito il tessuto sociale laico della nostra repubblica”.

Puniyani riporta che il maggior partito che fa leva sull’elemento confessionale per attrarre consensi è il Bjp (Bharatiya Janata Party, nazionalisti indù attualmente al governo), “che polarizza le comunità lungo linee religiose”. Per questo, aggiunge, “la sentenza della Corte potrebbe essere un grande sollievo”. Dello stesso parere è Sajan K George, presidente del Global Council of Indian Christians (Gcic), commenta: “Tutto questo è davvero ironico, perchè le politiche di Modi sono radicate in profondità nel movimento dell’Hindutva. La Costituzione indiana accorda diritti ad ampio raggio per tutti i suoi cittadini, comprese le minoranze. L’India è una democrazia laica e pluralistica, dove la cittadinanza è legata al territorio e tutte le minoranze etniche e religiose sono considerate al pari degli altri”. “Invece i fautori di un ritorno alle origini indù dello Stato – continua – tentano di fare pressione su Modi affinché egli utilizzi il mandato elettorale per accrescere le loro politiche”.

Come detto, alla vigilia delle elezioni in stati importanti sia per il numero dei votanti (l’Uttar Pradesh a grande maggioranza indù con, tuttavia, un’alta percentuale musulmana), sia per presenza di minoranze religiose, (il Punjab è tradizionale roccaforte dei sikhs e gli stati di Manipur e Goa contano una presenza cristiana alta ed attiva) resta da vedere come reagiranno i politici nel corso della campagna elettorale.

 

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