Il veggente di Patmos

La piccola isola nel Mar Egeo conserva le memorie dell’autore dell’ultimo libro della Bibbia: l’Apocalisse. L’innovativa lettura proposta da Giampiero Comolli
L'isola di Patmos ai nostri giorni (foto: Wikipedia)

Turchese è il mare, verde intenso la vegetazione, bianco immacolato le case, ocra la mole turrita e merlata di quella che sembra una fortezza e invece è il monastero di San Giovanni. Sono questi i colori con cui si offre al primo sguardo Patmos, il capoluogo dell’omonima isola: una delle più piccole dell’arcipelago del Dodecaneso, ma non la meno famosa. Patmos è infatti universalmente nota per essere stata luogo d’esilio dell’autore dell’Apocalisse, che in una grotta, secondo la tradizione, nel “giorno del Signore”, ebbe la “rivelazione” (è questo il significato di Apocalypsis) di ciò che accadrà alla fine dei tempi.

A lungo il veggente è stato identificato con l’evangelista Giovanni, ma i più recenti esegeti propendono per un secondo Giovanni, forse discepolo del primo, relegato in quest’isola remota del Mar Egeo all’epoca della persecuzione di Diocleziano (81-96 d. C.).

Il mistero di questo personaggio, che si dichiara umilmente fratello degli altri credenti senza accampare meriti speciali, aleggia durante tutta la visita al monastero, la cui fondazione risale alla fine dell’XI secolo; allorché un santo monaco del Monte Latros, in Bitinia, di nome Cristodulo, sfuggito alle violenze e ai saccheggi dei turchi selgiucidi, ottenne in dono dall’imperatore di Costantinopoli Alessio Comneno l’isoletta di Patmos. Il monastero, che inglobò la grotta delle visioni rinnovando la fama dell’autore dell’Apocalisse, assunse col tempo l’aspetto di una fortezza, necessaria difesa dai ricorrenti attacchi dei pirati musulmani.

Protetta dalla sua cerchia di mura, questa massiccia costruzione presenta sul tetto graziosi campaniletti a vela le cui campane scandiscono le ore e i tempi liturgici del giorno. Forte il contrasto tra l’abbacinante candore esterno e l’interno della chiesa, dove si è avvolti da una fresca penombra attraversata dai baluginii dorati della ricchissima iconostasi e delle innumerevoli icone: tutte o quasi provenienti dalla celebre scuola pittorica cretese.

Dopo l’omaggio, in una cappella del katholikon, alle spoglie di Cristodulo (morto nel 1093), non può mancare la visita al museo e alla biblioteca. Nel primo sono custoditi, fra l’altro, il documento con cui Alessio Comneno esentava il monastero da ogni tassazione concedendogli come dipendenze diverse isolette minori attorno a Patmos; nonché alcuni firmani siglati dal sultano Maometto II e dai suoi successori, attestanti la benevolenza e il rispetto da parte degli ottomani. Magnifici, nella biblioteca ricca di oltre 1000 manoscritti, i fogli pergamenacei di un codice purpureo proveniente da Costantinopoli, con frammenti del Vangelo di Marco (VI secolo) e altri preziosi codici dal IX all’XI secolo. Non poteva mancare, fra le scene miniate, quella in cui san Giovanni, mirando il cielo, detta al diacono Procoro ciò che gli viene rivelato in visione.

Nel corso dei secoli Patmos col suo monastero sperimentò saccheggi (da parte dei veneziani) e periodi di crisi. Continuò comunque ad essere un centro privilegiato di spiritualità e cultura: specialmente dopo la fondazione, nel 1713, di una scuola teologica che per duecento anni avrebbe contribuito a formare le gerarchie ortodosse di Grecia, Asia Minore e Vicino Oriente.

Ma torniamo all’Apocalisse, senza dubbio il più ostico ed enigmatico tra gli scritti del Nuovo Testamento, nel quale fu l’ultimo ad essere inserito. Non è possibile penetrare la sua complessa simbologia senza una guida appropriata: troppo lontani siamo noi moderni dalla sensibilità dei primi cristiani, ai quali invece il genere letterario adoperato da Giovanni era di più immediata comprensione. Anche se certe sconvolgenti immagini trovano forse noi più preparati, avvezzi come siamo ai film catastrofici e alle guerre stellari.

Oggi in cui i commenti esegetici mettono in luce innanzitutto l’intento consolatorio di quello che, di primo acchito, potrebbe apparire un testo fosco e conturbante, l’Apocalisse di Giovanni sta dischiudendo man mano i suoi tesori. Un bel contributo viene ora non da un esegeta, ma da uno scrittore e giornalista della Chiesa Valdese, esperto nei fenomeni religiosi contemporanei: Giampiero Comolli, il cui Apocalisse: il libro del mondo rinnovato, pubblicato dall’Editrice Claudiana, si segnala per l’approccio innovativo.

L’autore infatti, prendendo spunto dall’inizio del testo sacro in cui il veggente è invitato a scrivere alle sette Chiese d’Asia (sette sta ad indicare: tutte le Chiese), sottolinea come l’Apocalisse, in quanto lettera destinata a incoraggiare i cristiani del suo tempo nelle tribolazioni presenti e dell’immediato futuro, vada letta principalmente nelle assemblee, pur senza escludere una lettura individuale. Comolli l’ha fatto e il libro in questione: è il risultato di una pratica meditativa comunitaria fatta con un gruppo di credenti e non credenti durante un corso di meditazione tenuto presso il Centro Protestante di Milano.

Nella premessa l’autore si propone di «mostrare come l’Apocalisse sia un testo di straordinaria attualità, portatore di prospettive nuove e rasserenanti non solo per ciascuno di noi individualmente, ma anche per le nostre comunità, le nostre Chiese, la nostra epoca… Nelle pagine che seguono, dunque, non ho voluto tanto proporre una lettura storico-critica dell’Apocalisse, quando delineare un itinerario spirituale che racconta e commenta alcune parti del libro di Giovanni attraverso un approccio esistenziale, narrativo e a tratti autobiografico. Raccontando infatti come l’Apocalisse sia entrata nella mia vita e l’abbia illuminata, vorrei far capire come potrebbe rischiarare anche la vita di altri eventuali lettori».

A lettura ultimata, direi che Comolli è perfettamente riuscito nel suo intento.

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