Il Rof a Pesaro

Quasi 16 mila presenze alla 38a edizione della rassegna dedicata a Rossini. Che quest'anno ha avuto il momento forte nella nuova produzione de Le Siège de Corinthe (L'Assedio di Corinto)

Quasi 16 mila presenze alla 38a edizione della rassegna dedicata a Rossini. Che quest’anno ha avuto il momento forte nella nuova produzione de Le Siège de Corinthe (L’Assedio di Corinto), in edizione integrale, con oltre mezz’ora di musica mai ascoltata, forse nemmeno alla “prima” all’Opèra di Parigi nel 1826. Musica bellissima, luci e colori sgargianti del miglior Rossini. Uno stile declamato, arioso, molto “francese”, ma anche danze e cori in punta d’orchestra, una varietà impressionante di timbri – specie nei legni e negli ottoni, dove Rossini eccelle – e poi le voci si direbbe “lunari” come l’atmosfera irreale dell’allestimento affidato a Carlus Pedrissa della Fura dels Baus.

La storia di Corinto veneziana assediata da Maometto II che vive una tragica storia d’amore con Pamyra, figlia del comandante veneto, e che si sacrifica per la famiglia e la patria, risente dei furori indipendentisti del tempo, lord Byron in testa. Ma la regia inscena una lotta per l’acqua fra i popoli: centinaia di taniche d’acqua formano muraglie tra cui si svolgono i fatti. Allestimento discusso, ma che non ha toccato la parte musicale. L’opera parigina non è solo la rieleborazione del Maometto II che Rossini aveva dato a Napoli nel 1820: è una riscrittura totale, una nuova fase dell’arte del musicista, dalle solenni arcate drammatiche, dai concertati sontuosi dove il virtuosismo vocale è “frenato” in melodie sinuose e solari. La direzione di Roberto Abbado, accuratissima e attenta ai dettagli, è stata un gioiello di finezza e musicalità, assecondata dall’Orchestra Nazionale della Rai, per la prima volta al festival. Voci all’altezza, specie il luminoso Néoclès di Sergey Romanovsky (gli si augura un bel futuro), il Maometto impetuoso di Luca Pisaroni, il Cléomène arditodi John Irvin. Nino Machaidze è stata una Pamyra preziosa. Edizione straordinaria.

Su di un livello diverso le altre due opere al festival.

La Pietra del Paragone è un piccolo capolavoro di comicità e sentimento, narrando del Conte Asdrubale, scapolo incallito, ma circondato da donnine seducenti e interessate ai soldi del signore. Non manca la figura del giornalista, preso in giro dalla verve rossiniana. Il musicista ventenne si scioglie in arie buffissime e patetiche, vezzeggia le donne, ironizza sugli inganni della vita: alla Scala nel 1812 fu un successo. Il riallestimento dell’edizione del 2002 di Pier Luigi Pizzi non ha mostrato la misura consueta del regista, ma forse si è “perso” in una miriade di scenette, di arguzie e stravaganze (tuffi in piscina), inscenando la vicenda nella villa di un dandy facoltoso circondato da bellezze femminili e maschili, che si vestivano e spogliavano “a tempo”. Troppo traffico sul palco, così che i cantanti son sembrati più atleti che voci riposate, anche perché la direzione di un agitato Daniele Rustioni sembra rimasta in superficie di fronte a un lavoro di tanta freschezza. Rossini è difficile e non è per tutti.

Migliore certamente il Torvaldo e Dorliska, vera pièce au sauvatage del 1815 dove il solito “cattivo” tenta di impedire con la forza l’amore due giovani sposi, finendo però in catene: un situazione simile al Fidelio di Beethoven e alla Lodoiska di Cherubini. Insomma, una classica storia nazional-popolare molto in voga all’epoca tra comicità e dramma. La produzione del 2006 con la regia di Mario Martone non è invecchiata, anzi è piena di humour, vivacità e stile, sotto la bacchetta davvero curata di Francesco Lanzillotta alla testa dell’Orchestra Sinfonica Rossini, dal timbro lucente, e di una compagnia di canto pregevole (Nicola Alaimo, Carlo Lepore, Salome Jicia, Dmitry Korchak, quest’ultimi usciti dall’Accademia rossiniana). Un successo meritato, come del resto tutta l’edizione 2017.

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