Il punto oscuro della comunità e la sua purificazione

L’auto-sovversione è la virtù, rara, di saper mettere in discussione le proprie certezze. È il passaggio necessario in ogni comunità per andare oltre il mito del fondatore perfetto. Proponiamo il contributo di Luigino Bruni su Avvenire, che apre ad un dibattito oggi forse indispensabile

Luigino Bruni, noto economista oltre che autore di riferimento per Città Nuova, ha intrapreso sul quotidiano Avvenire una rilettura del testo biblico con l’intenzione di coglierne il significato originale nel tempo attuale. Riproponiamo questo recente intervento che affronta il tema di un testo già pubblicato da Città Nuova (link) sulle dinamiche delle organizzazioni a motivazione ideale.

 

Con la citazione iniziale di Jean Vanier, fondatore delle comunità de L’Arche, si entra nel nodo della pulsione di potere che può verificarsi nella fondazione di una comunità. Il testo del Quoelet mostra il travaglio doloroso necessario per liberarsi da ogni certezza ideologica, fino alla “rimozione” dello stesso mito del fondatore. Una purificazione necessaria per ogni realtà che non vuole restare rinchiusa in se stessa e avviarsi verso il declino. Un punto di vista, quello di Bruni, che apre ad un dibattito forse oggi necessario.

 

 

«Nella fondazione di una comunità vi è sempre un punto oscuro, nascosto, un inconscio collettivo, che ha la sua origine nell’inconscio del fondatore e nel suo bisogno umano di controllare. Se la comunità è chiamata a crescere e svilupparsi, questo punto buio deve essere purificato. La crisi è la purificazione di questo inconscio collettivo. La comunità dovrà passare dal mito del fondatore perfetto, a una appropriazione più collettiva del mito fondatore, purificato da ciò che non è essenziale».
 

Jean Vanier, Il mito fondatore

 

«Per qualche mosca morta si guasta un unguento di profumiere. Poca stoltezza offusca la gloria di un sapiente» (Qohelet 10,1). Ci aveva lasciato pochi versi fa con la lode per la luce che rischiara il volto del sapiente (8,1), ed ecco che ora Qohelet complica ulteriormente il discorso, mostrandoci la vulnerabilità e fragilità della sapienza. Come è sufficiente una mosca che penetra nell’ampolla del profumo per corromperlo, così basta un po’ di stoltezza per rovinare la sapienza.

 

Non solo la sapienza resta "lontananza", "profonda profondità" (7,24), ma anche quando riusciamo a farne esperienza e a essere, sebbene provvisoriamente, saggi, Qohelet sembra dirci che la sapienza soccombe di fronte alla stoltezza. All’inizio del suo discorso aveva affermato che «La sapienza io vedo dominare sulla follia, come sopra la tenebra la luce» (2,13). Ora, approssimandosi la fine del suo cantico, dice che è la stoltezza a essere più forte. Ne basta poca per corrompere tutto. Non è una lettura feconda di questo libro e degli altri libri sapienziali quella che cerca una meta-chiave di lettura che ci sveli se sono più veri i versi sulla superiorità della sapienza o questi dove Qohelet afferma il contrario. È invece molto più fecondo leggere Qohelet come un maestro di pensiero non-ideologico, e quindi auto-sovversivo.

 

Uno degli ingredienti base delle culture non ancora contaminate dall’ideologia, o di quelli che sono stati capaci di resistere o liberarsene, è appunto la loro capacità di auto-sovversione. L’auto-sovversione, nel senso che ha dato a questa parola il grande economista Albert O. Hirschman, è la virtù, rarissima, di mettere in discussione le proprie certezze, di non cercare nelle cose che ci accadono gli elementi che ci confermano le nostre idee, ma quelli che le negano o le sfidano. Di chi crede di più alla verità della vita che gli scorre accanto oggi, che alle verità che ha costruito e conquistato ieri. Il pensiero auto-sovversivo è utile per tutti, ma è essenziale per chi ha abbracciato una fede, religiosa o laica, per chi ha aderito a una proposta grande che gli ha promesso una terra nuova. L’esercizio di auto-sovversione è la migliore prevenzione contro ogni forma di ideologia.

 

L’ideologia, infatti, è in genere inconfutabile, proprio per la sua tendenza di farci trovare alla fine del percorso solo quanto vi avevamo posto all’inizio. La nascita dell’ideologia è un processo che si compone di (almeno) due operazioni. La prima inizia quando si ha ancora la coscienza che la realtà presenta una sua ambivalenza, e che non tutto ciò che accade attorno è coerente con le nostre convinzioni. Si vede ancora un mondo più grande di quello che conferma le nostre tesi, ma si comincia a escludere dalle nostre analisi la parte scomoda e dissonante. La seconda operazione consiste nell’auto-convincimento che il mondo sia veramente fatto soltanto della parte che ci interessa e che ci conferma: a forza di raccontare un mondo diverso da quello vero, si finisce per non vedere più la totalità della realtà.

 

È qui che l’ideologia diventa inscalfibile: l’evidenza contraria alle nostre idee non riesce più a farci correggere le nostre convinzioni semplicemente perché non siamo più in grado di vedere quell’evidenza. Come chi che per un disturbo della vista perde progressivamente la capacità di vedere i colori, ma che invece di curarsi si convince che il mondo è in bianco e nero. È anche per questa ragione che la persona catturata dall’ideologia ci appare con una sua buona fede e una strana sincerità, che confondono molto i nostri giudizi, le diagnosi, le terapie. L’auto-sovversione è possibile solo nella prima fase, quando possiamo ancora riconoscere i segnali del virus che inizia ad attivarsi nel corpo.

 

Un primo segnale che dice che sta per arrivare la febbre, è la diminuzione d’interesse per le idee diverse, e quindi cercare sempre più i propri simili. Non ci facciamo più le domande nuove, vogliamo solo le vecchie e sicure risposte. Un secondo segno è l’emergere del senso di persecuzione. Si comincia a dividere il mondo in due gruppi: quello, piccolissimo, degli amici con cui condividiamo la stessa visione, e quello contenente tutti gli altri che non ci capiscono e sono percepiti come ostili. Si crea un nemico immaginario, e lo si intravvede ovunque: nei giornali, in tv, nei vicini di casa, in Dio (se non coincide con l’idea che ce ne siamo fatta). Anche le persone migliori, quelle che abbiamo sempre stimato, iniziano a essere messe in discussione e relativizzate, se e quando dicono cose che non confermano la nostra incipiente ideologia. Si crea così, giorno dopo giorno, un "testo sacro" di cui si diventa evangelisti e profeti.

 

Il libro di Qohelet, insieme a Giobbe, è in sé un esercizio di auto-sovversione intrinseco alla Bibbia, perché nega continuamente le idee di Dio e di religione che propone, per evitare che si trasformino in ideologia. Il Dio-Elohim di Qohelet è rimasto vivo perché Qohelet lo ha sovvertito molte volte.

 

L’ideologia – che è una idolatria sofisticata – è una patologia di portata universale, ma è particolarmente comune e grave quando colpisce persone religiose, perché anche Dio e gli altri abitanti invisibili del mondo vengono consumati e utilizzati come materiali per la costruzione di un impero ideologico. Quando anche Dio finisce per coincidere con la nostra idea di Lui, l’ideologia è perfetta e senza uscita. Le mosche morte hanno guastato l’intero profumo. È difficile incontrare autentiche comunità e persone di fede perché, nella maggior parte dei casi, al posto della fede e degli ideali incontriamo varianti delle molte ideologie che popolano il mondo.

 

La fede e l’ideologia della fede sono due cose molto diverse. La fede libera dai propri dogmi e idoli, pone domande; l’ideologia lega, consuma, schiavizza all’idolo, e crea molte risposte facili e false. Non inizia nessuna vera vita spirituale se non siamo capaci, un giorno, di liberarci dall’ideologia della fede che abbiamo via via costruito.

 

La fase ideologica è (quasi) inevitabile, soprattutto all’interno di comunità spirituali e carismatiche. Attorno all’idea originaria che ci ha "chiamato" si crea, poco a poco, un edificio: prima una tenda, poi un tempio che custodisce "l’arca" della prima alleanza, e infine accanto al tempio costruiamo una reggia per noi, più grande del tempio costruito per Dio – come aveva fatto Qohelet-Salomone (1Re 7,1). L’ideologia è il processo che va dalla voce invisibile alla costruzione dell’arca, poi dall’arca alla tenda, quindi al tempio e alla reggia. L’auto-sovversione individuale e collettiva, nelle rare volte che riesce ad accadere, è opera di distruzione, questa volta intenzionale, delle molte costruzioni che si sono susseguite attorno alla prima promessa, per tornare alla prima gratuità della prima parola.

 

È un cammino a ritroso, un tornare a casa diminuendo, semplificando, smontando gli imperi di sabbia che abbiamo costruito. A volte questo cammino di ritorno lo compiamo negli ultimi mesi o giorni di vita, quando vediamo il crollo della nostra reggia e del nostro tempio, per diventare finalmente liberi di tutto, padroni di niente.

 

L’arca, il tempio e la reggia sorgono progressivamente a servizio del carisma e della sua comunità, e anche quando iniziano a diventare troppo grandi, vengono visti e giustificati come elementi ancillari e necessari allo sviluppo della comunità.

 

Col tempo, però, e senza che se ne prenda mai piena coscienza, le costruzioni ideologiche finiscono per soffocare la prima gratuità dell’evento vocazionale originario. L’ideologia dapprima si affianca all’ideale e lo sostiene, ma presto ne prende il posto, in un processo che può durare molto tempo, a volte tutta la vita, ed è quasi sempre senza ritorno.

 

È, infatti, molto arduo prendere coscienza della secrezione ideologica dell’ideale originario, perché assumono le medesime forme, sono figli degli stessi genitori, hanno entrambi gli stessi tratti, le stesse bellezze, usano le stesse parole, dicono le stesse preghiere, portano (all’inizio) gli stessi frutti spirituali. È, infatti, lo stesso dono che diventa nevrosi, contaminando progressivamente anche le capacità critiche di discernimento individuale e collettivo, perché incantate nello stesso incantesimo.

 

Ma può anche accadere il miracolo della grande benedizione – ce lo dice la storia. Quando al culmine dell’esperienza di una comunità ideale divenuta nel frattempo – inintenzionalmente e forse inevitabilmente – comunità ideologica, qualcuno esce dall’incantesimo e capisce, o quantomeno intuisce, l’avvenuta trasformazione ideologica.

 

La fine dell’incantesimo all’esterno e all’interno si manifesta come crisi, ma in realtà è crinale tra il vecchio angusto orizzonte e il nuovo ampio a terso, è spartiacque tra la vecchia vita e la nuova. Ma affinché la liberazione dall’ideologia sia collettiva, occorre che a svegliarsi e uscire dall’incantesimo sia anche colui (o coloro) che l’ha generato. Evento questo ancora più raro, perché l’incantatore è il primo a essere incantato dal proprio incantesimo: «Scavi una fossa, ci cadrai dentro. Abbatti un muro, ti morde una serpe. Pietre smuovi, ti colpiranno. Legna spacchi, ti ferirai» (10,8-9).

 

A volte, però, anche il fondatore riesce a liberarsi dal proprio incantesimo, ma affinché si compia la liberazione comunitaria dall’ideologia non è sufficiente l’uscita dall’incantesimo da parte del fondatore. È necessaria la sua "scomparsa". Elia, il profeta e il maestro, lascia il suo "mantello" a Eliseo, il discepolo e continuatore, e scompare in cielo rapito dal carro di fuoco. È così che si compie la grande auto-sovversione: termina l’età dell’ideologia e inizia quella della vita spirituale di tutti.

 

Quando, invece, una volta "disincantati" i profeti non sanno "morire" scomparendo, o quando i loro seguaci non consentono loro di sparire perché ancora imprigionati dall’incantesimo, può accadere che il serpente morda il suo pifferaio: «Debole incantamento, fa mordace il serpente. Che ci guadagnerà l’incantatore?» (10,11). I profeti salvano le loro comunità se riescono a spezzare l’incantesimo da loro creato, e poi lasciarci soltanto la povertà del loro mantello.

 

Originale su Avvenire

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