Il pensiero dietro la voce

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Roma, dicembre. Simpatia immediata, sincerità, cordialità squisita. Daniela Dessì non è solo un soprano prestigioso, ma una donna fresca, pronta alla battuta e alla confidenza. Desiderosa di rapporti autentici. Ripercorriamo la sua carriera. Ha iniziato come soprano belcantista. Molto Pergolesi, Paisiello, Cimarosa e tanto Rossini. “Ho un passato abbastanza lungo di “belcantismo”, cosa che oggi mi permette di affrontare le opere del cosiddetto “verismo” (Puccini, Mascagni e compagni, ndr) in maniera diversa, cercando di ripulirle dal sovraccarico di gestualità, di tinte forti cui si era abituati. Certo il “belcanto” mi ha lasciato una ricchezza musicale e culturale più ampia – anche se non era facile, ricordo nel ’95 il Guglielmo Tell di Rossini a Pesaro: mamma mia!, sei ore di canto di estrema difficoltà. Ma ora posso muovermi all’interno di certe partiture forse più “carnali”, pensando a far ascoltare la musica e non gli “effetti””. Ultimamente affronta lavori da soprano “lirico spinto”, come si dice tecnicamente. C’è un personaggio, fra i tanti che interpreta, in cui ritrova meglio sé stessa? “Le parrà strano, ma è la Butterfly pucciniana il personaggio in cui sono entrata molto: forse perché è materna, forte e debole nello stesso tempo”. Non sarà perché anche lei è una madre? Ho visto due bambini qui con lei. “Sicuramente anche per questo. Anzi, devo dire che come mamma sono molto apprensiva, dato il mestiere che faccio e il fatto di doverli lasciare spesso. Però ho limitato i miei percorsi oltreoceano, perché voglio stare più vicina a Jacopo, mio figlio di dieci anni – la bambina, sua coetanea, si chiama Alessandra, è figlia del mio fidanzato Fabio (il tenore Armiliato, ndr). Così ho deciso di lavorare in località dove ci vogliono al massimo due ore di aereo per arrivarci, perché tengo molto alla famiglia. Io sono figlia unica di genitori genovesi, anche se a undici anni ci siamo trasferiti a Brescia a motivo del lavoro di mio padre che abita tuttora vicino a casa mia, con mia madre”. L’amore per il canto è dunque nato in casa? “Guardi, io non ricordo altro. Ho iniziato a cantare a nove anni, andavo dalla nonna a chiederle un parere, e lei, da buona toscana: “Mi sembri una gallina spennata” (ride, ndr). A dieci anni, ho detto a mio padre: “Da grande farò la cantante lirica” – già studiavo il piano – e a quindici ho cominciato a farlo. Tanto che non riesco a immaginare la mia vita senza la musica, qualsiasi mestiere avessi fatto. Con la musica riesco anche a superare le difficoltà della vita, i problemi” perché essa pervade tutto quello che facciamo, anche il canto di un uccello, l’acqua stessa pare musica!”. Mi sembra che lei sia molto giovane, dentro, viva come sotto un incanto. “Certamente, lo sono e lo vorrei rimanere il più possibile, anche se c’è chi cerca di minarmi ai fianchi continuamente” Ma io sono ottimista di base, anche se ci sarebbero motivi in contrario, visto quel che succede nel mondo. Lo sono perché credo che la spiritualità sia la cosa più importante. Penso che l’uomo prima o poi ritornerà proprio a questo, deve credere in qualcosa di superiore che lo limiti in questa follia attuale. Sa, è un momento difficile anche per i bambini, perché accendono la tivù dove viene propinata qualsiasi cosa, anche drammatica. Non è un bel crescere, perché l’ambiente intorno è molto pesante e i bambini sono obiettivi sensibili. “Penso comunque che la musica aiuti molto a ritrovare una forte spiritualità, aiuti la gente ad essere più introspettiva, perché essa crea sentimenti, emozioni che poi arrivano al cuore”. Parlava di spiritualità. Lei è credente? “Certo. Sono un’ammiratrice fervente di Gesù, per me è una figura straordinaria, ha cambiato il mondo”. Torniamo al canto. Ha lavorato e lavora con grossi nomi, come Abbado e Muti, ad esempio. C’è qualcuno con cui ha trovato un’affinità particolare? “Le dico sinceramente che ho sempre un buon rapporto con i direttori, perché mi piace far musica e i grossi nomi sono gente anche loro così, per cui è difficile potersi scontrare: magari si può discutere su visioni diverse” Parlando, che so, di Abbado e Muti, entrambi grandi musicisti prima di tutto, direi che il primo è forse molto rigoroso ma più “accompagnante” il cantante; Muti anche lui assai rigoroso, tira fuori dal cantante cose bellissime, però è, come dire, più perentorio. Zubin Metha è invece un direttore sempre col sorriso in volto. Questo è molto bello, perché quando uno canta e sa che il direttore è felice di quello che lui sta facendo, si rasserena e gli passa tutta l’ansia. Anche Gelmetti è così, anzi con lui a volte ci siamo divertiti molto”. Lei viaggia spesso e incontra pubblici assai diversi, come quello giapponese… “Io ho un rapporto bellissimo col pubblico. Ricordo ultimamente a Palermo, dove la sala non è facile né espansiva: un signore anziano, applaudendo, mi ha detto: “Grazie, avevamo bisogno di questa Butterfly”. Queste sono cose che ti riempiono di gioia. Se penso ai giapponesi, beh, loro sono entusiasti, ascoltano i dischi, seguono lo star system e pagano cifre molto alte pur di sentire qualcuno. Forse sono meno selettivi di altri pubblici, ma un paio di volte li ho anche sentiti fischiare dei colleghi” Sembrano duri, invece sono di una dolcezza unica. Ricordo la prima volta che andai in Giappone con Muti e l’Orchestra della Scala per il Requiem verdiano: già alle prime battute dei violoncelli vidi due persone tirar fuori i fazzoletti e piangere. Mi hanno così commossa per questa loro sensibilità. “Ma lei non sa quante persone vengono a teatro e mi dicono: “Ho questo e quest’altro problema, ma stasera lei me li ha fatti dimenticare”. E poi giovani, sono tanti quelli che vengono, anche se è vero che il teatro costa e vengono a volte quelli che hanno maggiori possibilità economiche”. Oggi la musica è spettacolo. Che ne pensa delle opere in piazza o negli stadi, delle miscele di lirica e pop e così via, che pure raccolgono parecchi consensi? “Certo la musica non è a compartimenti stagni, quando è bella, è bella. In macchina sono piena di dischi di De Andrè, Sting e Celentano” “Credo però che un certo tipo di musica, quella ritenuta “classica”, vada fatta nei posti giusti e dalle persone giuste. Non si può far cantare a Michael Bolton I pagliacci. I ragazzi che lo sentono, finiscono col credere che la lirica si faccia allo stadio o con le chitarre elettriche. È come se il calcio si facesse, mettiamo, nel giardino della villa di Berlusconi piuttosto che allo stadio! Così la lirica va fatta a teatro, fa parte del nostro bagaglio culturale. Se no si confondono i generi. Noi questo rischio ce l’abbiamo, visto che nelle scuole ci si riduce a far suonare il flautino ai bambini. Finché lo faranno fare e non diventerà facoltativo. Purtroppo, la lirica è trattata male anche dai media, che le concedono ritagli di spazio, per non parlare di certi critici musicali che ammazzano le opere (vedi la Francesca da Rimini a Roma, ndr) anziché aiutarle a uscire. Ma così la lirica muore…”. Lei ha un repertorio di sessanta opere. Come affronta questa grande varietà di ruoli? “A me piace viaggiare e incontrare altri popoli, perché è un arricchimento culturale. Così amo spaziare nel repertorio, tentando di essere a fuoco con quello che si fa perché – anch’io posso aver fatto i miei svarioni – ogni autore ha il proprio stile e uno deve sapere a cosa va incontro se canta Verdi o Mozart o Puccini. Come mi preparo? Guardi, io non vado molto a teatro, ascolto registrazioni, studio sempre, e soprattutto penso parecchio. Da ragazza, a volte durante i pasti qualche amica mi vedeva sovrappensiero e faceva: “Daniela, cosa pensi, sta’ qui con noi”; e mia madre: “Zitta, Daniela studia”, per dire che senza pensiero non si canta. Ma lo facevano anche i cantanti del passato, come la Callas che certo aveva un pensiero dietro la voce”. A questo proposito, nella sua voce c’è una venatura patetica che ricorda qualcosa della Callas. “Forse una vena malinconica. Di solito parlano di inflessione sensuale, ma credo siano la stessa cosa. Io, ripeto, sono ottimista ma a volte, scontrandosi con la realtà, viene qualche tristezza – sorvoliamo sul mio ambiente – perché intorno ci possono essere persone che tentano di ostacolare chi ha delle qualità”. La sua è una vita intensa. Riposo, mai? “Certo ho tanti, troppi, progetti futuri. Tosca a Madrid – ne faremo pure il dvd con Armiliato e Raimondi -, Bologna con Andrea Chènier, Simon Boccanegra al Festival Verdiano, ancora Tosca a Barcellona, Buytterfly a Torre del Lago e in Giappone” fino alla Norma a Roma nel 2005! Ma sempre con Fabio (Armiliato, ndr), perché già la nostra è una vita difficile, di spostamenti continui, se non ci leghiamo almeno nel lavoro non si sta mai insieme, si diventa nevrotici e poi si canta anche male (ride, ndr)” Però dopo ogni impegno ci prendiamo sempre dieci, quindici giorni, anche un mese di riposo. Torniamo nella mia casa di campagna nel Bresciano, io faccio la mamma – questi bambini bisogna pur seguirli – pure la donna di casa, cucino, curo gli ambienti, il mio cane” sto con i genitori”. Da come ha parlato finora, lei sembra una donna con una grande carica di amore. “L’amore è qualcosa senza cui non si può vivere: l’amore in generale, e poi l’amore per la musica, i figli, la natura, l’arte. A livello personale, ho avuto un passato abbastanza difficile, ma adesso ho incontrato Fabio e sono molto contenta”. E dalla vita cosa si aspetta di più, a parte la musica? “La salute e la serenità mentale. Io sono serena finché dall’esterno non mi arrivano problematiche. Ma ultimamente ho trovato per me una spiritualità nuova, che mi aiuta a credere, a sperare sempre, ad essere ottimista”.

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