Il paziente lavoro di tante formiche

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Il soffio leggero di aria calda che mi accarezza quando arrivo a Lima è come un bacio di benvenuto. È notte, e la strada che dall’aeroporto conduce verso la città è addobbata con giganteschi cartelli pubblicitari, casinò, discoteche e McDonalds. Un’effervescenza di luci e di colori che ricorda Las Vegas. Appena fuori dall’aeroporto, si impone la pubblicità gigantesca di una compagnia telefonica multinazionale. Riproduce l’immagine di un bel giovane (un peruviano? uno statunitense? un europeo? comunque un giovane globalizzato), protetto da un berretto e da un maglione di lana contro le gelide temperature andine, che parla al cellulare sullo sfondo delle rovine del Machu Picchu. Probabilmente, si vuole trasmettere l’idea che il segnale arriva forte anche nel cuore delle vette peruviane. Forse, si vuole suggerire che vi è un legame di continuità tra la civiltà globale del presente e quella antica degli inca. Più forte, però, è l’impressione che quelle rovine, proprio perché nella riproduzione rimangono sullo sfondo, rappresentino solo qualcosa di marginale. In questa pubblicità, il Machu Picchu e gli indios sono folclore. La civiltà celebrata dalla pubblicità, invece, è quella che scorre rapida sulle onde invisibili e che rimbalzano da un ripetitore all’altro trasmettendo il tam-tam della modernità. Perché – ci aveva voluto illudere qualche anno fa Fukuyama – con la sconfitta del comunismo e il trionfo del liberalismo, la storia ha terminato la sua corsa. Se continuità vi è, è quella di un desiderio di conquista e di accumulo che non si è arrestato da quando i conquistatori sono partiti alla volta del Nuovo Mondo più di cinque secoli fa. Lima è una distesa di cemento che copre una superficie arida e brulla, lambita dall’oceano Pacifico. Una leggera nebbia sfuma i contor- ni aspri di questa metropoli di oltre otto milioni di abitanti. Moderni parallelepipedi di cemento si ergono accanto ad eleganti e talvolta fatiscenti palazzi dell’epoca coloniale, memoria di un sogno e di un progetto di conquista e di dominio che ha alimentato a metà del XVI secolo le fantasie del generale Francisco Pizarro, dei suoi uomini e dei suoi finanziatori. Entrando nella cattedrale che sorge accanto allo sfarzoso ed antico palazzo presidenziale, nella prima cappella a destra un sarcofago custodisce le spoglie del conquistatore. Tutt’oggi, ogni 18 gennaio, si celebrano le gesta di Pizarro ed è festa nazionale, ancora dimentichi del fatto che con ferro e fuoco ha cancellato antiche e ricche civiltà. In un edificio coloniale situato in uno dei quattro angoli della piazza centrale, si è ricavato un barristorante; uno dei tanti nodi della rete mondiale di fast food, il cibo globalizzato dal gusto uniformato. In questa porosità del tempo, tra l’epoca di Pizarro e quella di Mc- Donalds, in questo travaso di ambizioni e di conquista si produce quella che Benjamin ha chiamato la dialettica delle immagini. È in questo rispecchiarsi di sogni sempre vecchi e sempre nuovi che si può scoprire inciso negli edifici di ieri e nelle loro trasformazioni di oggi un continuum storico. La mancanza di soluzione di continuità tra il desiderio di iscrivere la superficie del Perù e del resto dell’America Latina coi codici della civiltà occidentale ieri, e del modello neoliberale oggi. E oggi, i rappresentanti di quelle antiche civiltà li scorgi ai crocicchi delle vie dove vivono ai margini esclusi dal processo politico. A poche centinaia di metri dal palazzo presidenziale, scorgo una madre con due bambini piccoli che dormono sul marciapiede. Ai semafori, bambini con in mano un’erba medicinale e sacra si offrono di benedire l’automobile per due soldi. Basta guardare negli occhi questi bambini che hanno tanta voglia di futuro senza averne l’opportunità, per comprendere che qualcosa non funziona, e che un cambiamento radicale e strutturale deve essere operato. La discriminazione di razza e di classe, mi dicono alcuni amici che vivono a Lima, è radicata e strutturale. È con queste immagini e con questi pensieri che il 23 gennaio scorso ho partecipato ad un convegno internazionale della Regione Andina indetto dalle Nazioni Unite per approfondire il tema della partecipazione comunitaria nella gestione della cosa pubblica.Nella due giorni, si sono susseguite ricche testimonianze di una democrazia dal basso, comunicativa, profonda e vibrante: esperienze sul bilancio partecipativo di Porto Alegre; sui processi decisionali in comunità indigene dell’Ecuador e della Bolivia; sul coinvolgimento delle comunità in diverse città colombiane, da Bogotà a Cali; sul ruolo dell’università in Venezuela; sulla promozione di politiche sanitarie di gruppi femminili in Cile. Il professor Bernardo Kliksberg, studioso e profondo conoscitore dell’esperienza di partecipazione comunitaria in America Latina, ha parlato di una domanda continua di partecipazione che sale dal basso. L’esempio più forte della storia recente è l’elezione di Elvo Morales in Bolivia, dove per la prima volta in 180 anni un leader indigeno è diventato presidente del paese al primo turno. Citato come un messaggio che arriva dalla base per riappropriarsi del processo politico. Promuovere una partecipazione genuina significa amministrare con eccellenza, ha detto Kliksberg confortando la sua affermazione con dati concreti. Cesare Busatto, di Porto Alegre, ha basato il suo intervento sulla lunga esperienza di bilancio partecipativo della sua città ed ha parlato di partecipazione come di un processo che non esclude nessuno, che è dialogo, che tiene in considerazione il prossimo e da rilievo alla posizione dell’altro, che da espressione alla pluralità e che genera consenso. Un pomeriggio è stato dedicato a conoscere e visitare l’esperienza di Villa El Salvador, una municipalità che si trova nella periferia di Lima: un’estensione a perdita d’occhio di case molto povere, costruite sulla terra arida e grigia del deserto peruviano. A Villa El Salvador, vivono quasi 400 mila persone. La zona è il prodotto di una vasta invasione legale avvenuta 35 anni fa, quando dalla sierra andina migliaia di persone costrette dalla povertà e dalla repressione, sono sfollate nella capitale. Da oltre tre decenni, Villa El Salvador (che non attira l’attenzione e l’interesse del grande capitale e della politica tradizionale) si governa secondo il principio della partecipazione comunitaria. In questi anni – grazie alla partecipazione attiva e continua dei suoi abitanti – sono sorte 38 mila abitazioni, 60 locali comunitari, 64 centri educativi, 25 biblioteche popolari, 41 servizi di educazione integrata, educazione e recupero nutrizionale, e 4 centri di salute e farmacia. L’analfabetismo è al 3,5 per cento – molto meno della media nazionale peruviana. Soprattutto vi è stato un aumento dell’autostima individuale e collettiva. L’enfasi del seminario è centrata sul bisogno di partecipazione reale e non simulata.Veniva in rilievo che la speranza per un mondo più fraterno e più giusto sta in un movimento dal basso di cittadini che interpretano e ridefiniscono la sostanza della sovranità che torna ad essere sovranità di popolo. È un movimento dal basso, che non si oppone dall’esterno con la forza, come nel passato è stato il caso d’organizzazioni guerrigliere, ma che rinnova e riforma dall’interno; che si appropria del discorso democratico e dei suoi processi, ma non per uniformarsi agli interessi espressi dal modello economico, politico e globalizzato del neoliberalismo, ma per dargli una interpretazione originale e propria, fatta a misura d’uomo e soprattutto a misura della persona umana che ancora oggi soffre l’esclusione dalla partecipazione e dalla determinazione dei processi politici. Quelli presentati a Lima, se messi in relazione con altri eventi e manifestazioni che avvengono nel mondo (come gli incontri di sindaci promossi dal Movimento politico per l’unità a Rosario in Argentina ed a Innsbruck in Austria), possono essere letti come esempi di nodi di una vasta rete che sta iscrivendo nel mondo un nuovo codice della politica. Tornando verso l’aeroporto vedo gli stessi cartelli pubblicitari, le stesse case di gioco e le catene multinazionali di cibo e gusto globalizzato. Ma vi è una moltitudine silenziosa dietro tutto questo, che come tarli nel legno, sta poco a poco rosicchiando il sistema politico ed economico dominante, in nome di una sovranità che torna nelle mani dei cittadini. Una moltitudine che sta ricostruendo un nuovo codice di convivenza. Su questo lavoro paziente di quest’eterogenea moltitudine, s’innesta la speranza di un principio politico della fraternità che saprà coniugare con sapienza diversità ed unità.

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