Il Mozart di Martone

Don Giovanni. Napoli, Teatro di San Carlo. La scena resta identica lungo i due atti. Un palcoscenico da teatro elisabettiano, vede gli spettatori- coristi assistere e recitare insieme ai cantantiattori che dal palco si spostano lungo la sala in mezzo al pubblico, in un tranquillo coinvolgimento, secondo quanto ama fare Mario Martone, regista libero da schemi preconfezionati. Funziona. Sono sette anni che la trilogia italiana mozartiana impegna Martone, il quale ammette di aver scoperto più tardi Mozart. Era Bach il suo primo amore in musica. Ma la scoperta si è rivelata fruttuosa. Don Giovanni viene riletto nei suoi lati buffi- grotteschi, nel tessuto drammatico dei personaggi e in quella tinta surreale che accompagna la prima e la penultima scena, con l’astrale figura del Commendatore, gigante candido, immenso. Martone snoda la vicenda scena su scena caricandole via via di humour tagliente, sensualità, tratti eroici: l’umanità su cui giganteggia Don Giovanni è varia, ansiosa come egli stesso che sembra correre a precipizio (tutti corrono con gran salti dal palco alla platea, ai palchetti) verso il confronto finale con Dio (il Commendatore) cui si oppone per una autoaffermazione sprezzante di qualsiasi legge che non sia quella di sé stesso. C’è una forte tensione metafisica nel dramma, al di là dei momenti comici ed epici; e Martone la coglie con un ritmo cinematografico. Grazie alle scene e ai costumi di Sergio Tramonti crea un mondo simbolico – formidabile la scena del funerale del Commendatore attraverso la platea – che dice l’atemporalità del capolavoro mozartiano e insieme la sua immediata comunicabilità. Certo, il cast vede cantanti come la vertiginosa Mariella Devia (Donna Anna), la felicissima Sonia Ganassi /Donna Elvira), il giustamente astrale Commendatore di Marco Spotti accanto al frizzante, bravissimo Leporello di Andrea Concetti e al protagonista Erwin Schrott, generoso di voce ed in scena, quasi fin troppo. In uno spettacolo di così alto livello – si pensi alla magia del disegno di luci di Pasquale Mari, maestro nel creare atmosfere di sottesa tragicità – la resa orchestrale è apparsa purtroppo sul grigio, con un peso eccessivo dei legni e degli ottoni sugli archi flebili, nonostante la direzione impegnata di Yoram David. Successo, pubblico folto ed entusiasta. WLADIMIR JUROWSKI Roma, Accademia Nazionale Santa Cecilia. Fiero e deciso, Jurowski, giovane star in netta ascesa, affronta un concerto diviso tra Mozart e Richard Strauss. Del primo, 4 brani: ouvertures da Nozze e Ratto dal Serraglio e due arie (Vorrei spiegarvi o Dio!, e Pene d’ogni sorta dal Ratto), del secondo l’aria di Zerbinetta dall’Arianna a Naxos e le musiche di scena del Borghese gentiluomo. Delicato accompagnatore nelle arie estreme per virtuosismo e ispirazione stellare del soprano americano, una applauditissima Laura Aikin, Jurowski si esprime compiutamente nei brani orchestrali: il suo Mozart ha un piglio nervoso, scattante, toscaniniano, mentre indulge a impalpabili delicatezze in Strauss. Sensibilità, gesto sicuro, coscienza della necessità di far musica insieme all’orchestra – stringe a tutti la mano a fine concerto, e non è scena – insieme aduna musicalità finissima, danno atto del successo del giovane moscovita, una delle promesse certe della direzione internazionale.

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