Il liberalismo moderno di Benjamin Constant

Articolo

Come succede spesso ai grandi, anche Constant è stato tirato per la giacchetta. Presentato, fino agli anni Cinquanta del secolo scorso, secondo uno stereotipo un po’ rigido di liberale classico, l’interpretazione del suo pensiero conosce una sorta di rivoluzione a partire dagli anni Sessanta, quando vengono resi pubblici importanti manoscritti inediti del periodo napoleonico. Si tratta di opere di carattere sistematico, che Constant scrisse e mise nel cassetto, salvo attingere ad esse, dopo il suo ritorno alla vita politica, per comporre opere più agili e di immediato effetto sul pubblico. Ma il Constant degli anni Sessanta viene, per così dire, ribattezzato a sinistra: proposto come un pensatore democratico, si attenuano le sue divergenze con Rousseau, per farne una sorta di padre nobile progressista. Con l’aiuto di Stefano De Luca, cerchiamo di restituire a Constant la sua vera fisionomia, anche per meglio comprendere la sostanza del liberalismo, ciò che esso può dare e ciò che non gli si può chiedere o attribuire. Il prof. De Luca è docente di Storia delle dottrine politiche all’Università La sapienza di Roma, autore di vari studi di filosofia politica e specialista del pensiero di Constant, al quale ha dedicato il recente volume: Alle origini del liberalismo contemporaneo. Il pensiero di Benjamin Constant tra il Termidoro e l’Impero, Marco Editore, Roma 2003. Prof. De Luca, nei suoi studi sottolinea l’originalità del pensiero di Constant, considerandolo come l’atto di nascita del liberalismo contemporaneo. Ma prima di Constant, già esisteva un pensiero liberale? Il pensiero liberale esisteva, anche se non veniva chiamato così. Pensiamo a John Locke, a Montesquieu. Ma il termine liberale ancora non c’è; nasce ai primi dell’Ottocento, in Spagna, dove il partito liberal si contrappone al partito servil. La parola, dunque, nasce dopo la cosa. Constant è alle origini del liberalismo contemporaneo perché esso si trova alle prese con problemi differenti da quelli dei due secoli precedenti. L’elemento di rottura epocale è la Rivoluzione francese, con la quale assistiamo alla genesi – convulsiva – della democrazia modernamente intesa. Non si può parlare di democrazia nell’Inghilterra del Seicento, quella di Locke, anche se vi sono idee importanti: limitazione del potere, derivazione dal basso – almeno in parte – del potere, diritti del parlamento nei confronti del sovrano; ma non c’è una partecipazione politica di massa, mentre con la Rivoluzione francese abbiamo la prima, violenta, disordinata irruzione delle masse sulla scena politica: il primo tentativo effettivo di costruire una democrazia. Dunque la Rivoluzione cambia i termini del problema politico: ma come organizzare la democrazia? Questo è il punto. L’idea di sovranità popolare, pensata dalle élites illuminate del Settecento, viene tentata nella sua pratica dalle masse popolari le quali, pur conservando ancora, sotto certi aspetti, una mentalità arcaica, si ribellavano ad una oppressione secolare. La Rivoluzione è un fiume in piena che erompe, che non riesce a produrre un ordine stabile, ma che, allo stesso tempo, fa invecchiare velocemente tutto il patrimonio teorico pre-rivoluzionario. Constant conduce il primo tentativo di ripensare la dottrina liberale alla luce dei nuovi avvenimenti rivoluzionari . Che cosa pensa Constant della Rivoluzione? È un sostenitore della fase iniziale della Rivoluzione, dell’89, nel quale vede la difesa dei diritti individuali, l’uguaglianza di fronte alla legge, la limitazione del potere; è convinto, invece, che successivamente si è prodotta una degenerazione, ad opera dei giacobini che portarono al Terrore. Constant infatti avrà un impegno politico durante il Termidoro; e il suo problema sarà quello di cercare di separare il 1789, la fase iniziale della Rivoluzione, dal 1793, la fase dittatoriale, che, per Constant, non ha nulla a che vedere con i veri princìpi della Rivoluzione . In sostanza, per Constant ci sarebbero state due rivoluzioni, una buona e una cattiva? Esatto. E tra le due non c’è parentela alcuna. Naturalmente questa interpretazione si contrapponeva a quella di coloro che consideravano la Rivoluzione come qualcosa di unitario: per condannarla in blocco – nel caso dei controrivoluzionari -, o per esaltarla in blocco, come nel caso della storiografia giacobino-marxista, che leggeva la rivoluzione come un avvenimento che doveva trovare il suo compimento storico nel socialismo. Constant rifiuta tutti gli argomenti che in qualche modo volevano giustificare il Terrore, come se esso fosse stato al servizio della libertà: per Constant, nulla può giustificare un potere assoluto. L’idea della violenza come fase necessaria per compiere il salto nel regno della libertà trova la sua prima applicazione moderna durante la Rivoluzione, ma ha avuto, nei due secoli successivi, effetti devastanti per le concezioni progressiste che l’hanno accettata, e ha portato alla costruzione di regimi autoritari o dittatoriali. Il rifiuto della violenza e del male, inteso come necessario, è certamente un punto di forza del pensiero di Constant: c’è anche un punto debole? Eccolo: durante gli anni del Termidoro, Constant, per difendere la Rivoluzione buona, continua a sostenere che il Terrore non è figlio della Rivoluzione, ma è una sorta di ritorno all’assolutismo precedente. Un’interpretazione che non sta in piedi, perché il terrore non aveva niente a che fare col dispotismo dell’Ancien Régime: è una dittatura assembleare, dotata di una ideologia e di una carica distruttiva del tutto nuove. Ad un certo punto, però, si rende conto che le radici del Terrore stavano anche nell’89; e che non si poteva limitarsi a condannare il Terrore, ma bisognava darne una spiegazione storica e teorica. Matura così una nuova fase del suo pensiero, nella quale distingue nettamente fra la libertà com’era concepita dagli antichi e quella dei moderni. Un tema scottante. Il riferimento agli antichi, infatti, era centrale per i rivoluzionari: consentiva loro di presentarsi come i realizzatori degli ideali politici greco-romani, e di fondare la Rivoluzione scavalcando il cristianesimo: qual è la posizione di Constant? Egli la definisce attraverso la critica a Rousseau. Tra coloro che, nel corso del Settecento, avevano preparato i materiali incendiari che avrebbero preso fuoco durante la Rivoluzione, un posto particolare spetta a Rousseau, grande teorico della sovranità popolare al quale specialmente i giacobini attingono. Rousseau, come molti altri, si rifà al modello antico: ha in mente l’ideale della democrazia diretta, quello che sembrava essere stato realizzato in alcuni periodi della polis greca, nella quale la sovranità popolare non incontra alcun limite. Secondo Constant, il modello di Rousseau teorizza una completa fusione e sottomissione dell’individuo al corpo sociale; il corpo sociale è sovrano, ma l’individuo è asservito; questa espropriazione dell’individuo è una forma di collettivismo. Ma in realtà non è la società come corpo collettivo ad esercitare questo potere assoluto, ma una piccolissima minoranza che dice di detenerlo in nome della società; e questa minoranza usa tutti i mezzi per fare in modo che queste sue decisioni sembrino espressione della volontà popolare: propaganda, dissuasione, terrore, e così via. La Rivoluzione francese mostra, con l’evidenza drammatica dei fatti, dove conduce il modello di Rousseau, proprio con l’esperienza del governo giacobino e del Terrore. Perché il modello non funziona? Perché ripropone una soluzione del tutto inadatta alla nuova epoca; la società, dai tempi dell’antica Grecia, è profondamente cambiata. Anzitutto nelle dimensioni, che rendono impossibile tecnicamente la democrazia diretta, cioè la partecipazione immediata dei cittadini alle decisioni politiche; è cambiata la mentalità, perché la società non è più prevalentemente militare, ma commerciale e gli individui non vogliono più essere sottomessi ad un potere paternalistico ma cercano di realizzare con le loro energie i loro obiettivi privati; non c’è più la schiavitù, tutti lavorano e hanno sempre meno tempo per partecipare alla vita politica, a differenza degli antichi ateniesi liberi, che passavano la giornata all’areopago perché gli schiavi lavoravano per loro. Inoltre, si è sviluppata l’idea che la società civile ha un suo spazio di autonomia nei confronti dello stato e delle decisioni politiche, mentre nell’antichità l’individuo faceva corpo completamente con lo stato. Con questa critica Constant trova la chiave per spiegare il Terrore: è la risposta repressiva ad una società che non accetta più il modello antico, il potere assoluto, la collettività astratta dei giacobini. La libertà dei moderni si configura dunque prevalentemente come libertà individuale, libertà dal potere. Constant utilizza questa concezione della libertà anche nella critica a Napoleone? L’esperienza napoleonica mette in luce il vero e proprio paradosso storico di una Rivoluzione nata dall’affermazione dei diritti e che ha prodotto, prima, il Terrore, e poi il cesarismo. Ma Napoleone compie un’operazione più astuta: sfrutta il bisogno di indipendenza individuale, e dunque concede la libertà civile: fate pure i vostri affari; ma in cambio toglie la libertà politica. È una forma nuova di dispotismo, che Constant non accetta: la soluzione, per lui, sta in un’ampia sfera di libertà civili individuali, accompagnate, sorrette, integrate e vivificate dalla partecipazione politica. La patologia del modello antico stava nella scomparsa della libertà individuale; quella dei moderni è nel rischio di chiudersi esclusivamente nel privato. Ma attenzione: la partecipazione politica, per Constant, è ancora basata sul censo; è un democratico, ma di una democrazia intesa essenzialmente come limitazione del potere e tutela dei diritti individuali. Questa soluzione fa di Constant il padre del costituzionalismo liberale dell’Ottocento; e in questo senso è figlio del suo tempo. Ma certamente dà anche un fondamento al liberalismo successivo: quello che dovrà combattere contro l’assolutismo del potere quando non si presenterà più nella forma del dispotismo antico del re-tiranno, ma in quella di dottrine politiche che si fondano sull’esaltazione di soggetti collettivi: la razza, il popolo, la classe, ecc. Le idee di Constant serviranno alla lotta contro i totalitarismi che anche noi, nel Novecento, abbiamo conosciuto. BENJAMIN CONSTANT (Losanna, 1767 – Parigi, 1830). Favorevole alla rivoluzione del 1789 ma avversario dei giacobini, partecipa attivamente alle vicende politiche del periodo del Direttorio. Oppositore di Napoleone, rientra a Parigi nel 1814 e accetta, l’anno successivo, la proposta di Napoleone di preparare una nuova Costituzione liberale. Eletto alla Camera nel 1819, diviene il capo dell’opposizione liberale. Nel luglio 1830 apre, disteso in barella, il corteo insurrezionale; il nuovo re Luigi Filippo lo nomina presidente di una sezione del Consiglio di stato. Muore l’8 dicembre 1830.

I più letti della settimana

Chiara D’Urbano nella APP di CN

La forte fede degli atei

Edicola Digitale Città Nuova - Reader Scarica l'app
Simple Share Buttons