Il fumo senza l’arrosto

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Isuoi stessi autori l’hanno definita una porcata. L’autorevole espressione è dell’allora ministro Calderoli, della Lega. Messa in questo modo, se si vuole parlare pulito, resta poco da aggiungere. Non stiamo parlando dello scippo di una vecchietta, ma dell’attuale legge elettorale. Per cambiarla, il 24 ottobre scorso sono stati depositati presso la Cassazione tre quesiti elettorali. Secondo la tabella di marcia prevista dai referendari, le firme potrebbero essere raccolte nel 2007, per poi votare nella primavera del 2008. C’è tempo, si dirà. Vero; ma come i lettori di Città nuova – già chiamati più volte ad aspre militanze referendarie – sanno bene, i referendum, sia a farli che a disfarli, costano fatica, ed è meglio prepararsi per tempo e ragionare insieme sulle cose. A salire la scalinata della Cassazione, facce vecchie e nuove: Mario Segni e Augusto Barbera, già protagonisti delle precedenti campagne referendarie che introdussero il sistema maggioritario; ma anche alcuni esponenti di vertice dei partiti maggiori: Ds, Margherita, Forza Italia, Alleanza nazionale. Il motivo per il quale i nuovi referendum trovino un tale appoggio trasversale lo spiega il costituzionalista Giovanni Guzzetta, che ha messo a punto i testi dei quesiti: Il sistema elettorale risultante dal referendum spingerebbe gli attuali soggetti politici a perseguire, sin dalla fase preelettorale, la costruzione di un unico raggruppamento, rendendo impraticabili soluzioni equivoche e incentivando una significativa ristrutturazione del sistema partitico. Si aprirebbe, per l’Italia, una prospettiva tendenzialmente bipartitica. I referendari vogliono, in sostanza, trasformare la legge elettorale per accompagnare i processi con i quali, all’interno delle due coalizioni, si sta cercando di dare vita a due grandi partiti, il Partito democratico a sinistra, il Partito delle libertà a destra. Quesiti al veleno Come si pensa di raggiungere questo risultato? I primi due quesiti (in realtà, si tratta dello stesso, proposto distintamente per la Camera e per il Senato) chiedono che venga impedito il collegamento tra liste. Esso oggi è consentito, e per- mette a molti partiti, anche piccoli, di presentarsi col proprio nome; è vero che esiste una soglia di sbarramento per cui ottengono seggi solo le liste che non superano il 4 per cento (su base nazionale) alla Camera e l’8 per cento (su base regionale) al Senato; ma questo ostacolo può essere aggirato: la soglia si dimezza se il partito entra in una coalizione. Il risultato? Un piccolo partito col 2 per cento dei voti può condizionare l’intera coalizione e, se essa vince, il governo. La legge esistente permette insomma un alto numero di piccoli partiti, ai quali concede un potere sproporzionato al proprio peso, rendendo così difficile governare. Il quesito chiede, in sostanza, che il premio di maggioranza attualmente previsto venga dato non alla coalizione, ma alla lista (cioè al partito) che ottiene più seggi; e rimarrebbero in vigore gli sbarramenti, senza più sconti. È evidente che questo dispositivo spinge alla costruzione di grandi partiti, capaci di competere per la conquista del premio di maggioranza. Il terzo quesito vieta ai candidati di presentarsi in più collegi: è ciò che fanno abitualmente i leader dei partiti. Vincendo in molti collegi, devono poi scegliere il proprio, tenendo così legati molti altri candidati alle loro decisioni; nelle ultime elezioni circa un terzo dei parlamentari è rimasto ad attendere tali decisioni: una situazione che avvilisce il ruolo del parlamentare e lo subordina ancora di più alle decisioni del vertice del partito. Come si vede, a parte il terzo quesito che difende la dignità dei parlamentari (e dei cittadini che li hanno eletti) nei confronti del partito, i primi due sono, né più né meno, un annuncio di morte per i partiti minori; o almeno tale è il senso che questi vi hanno colto. E nessuno di loro sembra disposto a tendere il braccio, davanti al leader della propria coalizione, e a gridare Morituri te salutant!; pare anzi che, nelle sedi romane dei piccoli partiti, i Mort… che si sono sentiti avessero un significato diverso. Di conseguenza, analogamente trasversale è lo schieramento che ai referendum si oppone, fatto dai partiti minori di entrambe le coalizioni. Esiste una possibilità alternativa: cambiare la legge in parlamento per evitare il referendum; ma dovrebbe venire cambiata nel senso proposto dal referendum stesso; un tentativo del genere potrebbe decretare la fine della coalizione di maggioranza (e la caduta del governo Prodi), per opera delle sue componenti minori, sia di sinistra che di centro: lo hanno dichiarato a chiare lettere sia il ministro Mastella che il segretario di Rifondazione, Giordano. Una nuova, vera legge elettorale avrebbe bisogno dell’accordo trasversale dei quattro partiti più forti delle due coalizioni: cioè la formazione di una nuova maggioranza – una grande coalizione provvisoria – al solo scopo di produrre una legge elettorale, con la quale andare alle elezioni. Una cosa del genere chi sta al governo potrebbe ipotizzarla solo alla fine della legislatura, non all’inizio. A questo punto, il presidente Prodi ha affidato al ministro Chiti un tentativo sovrumano: quello di modificare la legge attuale in maniera sensibile, ma evitando la crisi con la propria maggioranza e, contemporaneamente, cercando l’accordo con l’opposizione. Le ipotesi avanzate per operare il miracolo sono diverse, e converrà prenderle in esame nel momento in cui qualcuna di esse si staglierà con maggiore forza: intanto, lasciamo a Chiti il tempo di camminare sul Giordano. Culture e partiti Più urgente, sembra, è chiedersi se ci siano altri e importanti motivi, oltre a quelli già emersi nel dibattito, per cambiare la legge. Motivi meno legati alla politica istituzionale e ai suoi – pure fondamentali – problemi di funzionamento, e più legati al punto di vista del cittadino e della società civile. Questi motivi potrebbero darci indicazioni sulla direzione nella quale cambiare la legge. Si parla oggi con grande facilità di costruire nuovi, grandi partiti; questa esigenza parte veramente dalla vita, dalla realtà? Il partito è uno strumento che esprime una cultura politica: certamente non la riceve in modo passivo, ma è partecipe attivo della sua elaborazione, sviluppa progetti a partire dalle domande della società – e in dialogo con essa – e li mette in grado di tradursi in leggi, compie opera di formazione dei propri quadri; è insomma, un soggetto attivo anche nei confronti della stessa area culturale che gli dà vita, ha una sua personalità. Ma resta il fatto che il partito nasce e vive per il suo legame con la cultura sociale e politica che lo genera. Certamente, rappresenta anche degli interessi particolari; ma l’elemento predominante nel costituire l’identità di un partito dev’essere la cultura, cioè quell’insieme di princìpi, di idee, di valori, di storia, che consente di produrre progetti sull’intera società, e non mere rivendicazioni. Altrimenti, il partito si ridurrebbe ad una lobby, cioè ad un comitato che, professionalmente, difende un interesse particolare, cioè dialoga con l’istituzione pubblica in funzione di un bene privato; il partito, al contrario, raccoglie istanze originariamente anche private – per esempio i bisogni che ognuno di noi ha di istruzione, di cure, di sicurezza – per dare loro una solu- zione pubblica, cioè per trasformarli in bene comune. Potremmo dire, usando un’immagine che vale fino ad un certo punto, che il partito è il fumo che ci avvisa dell’arrosto, cioè di una realtà sociale e culturale che si esprime, politicamente, anche attraverso il partito. Purtroppo, il partito può ridursi a rappresentare esclusivamente o prevalentemente interessi particolari, cioè può diventare lobby. Il caso più interessante – e paradossale – di trasformazione di un partito in una lobby, il caso che in genere annuncia il tracollo del Paese in cui avviene, si realizza quando il partito diviene la lobby di sé stesso, cioè quando una parte preponderante o caratterizzante della sua attività e delle sue risorse viene utilizzata per conservare la propria classe dirigente nel ruolo dirigente, indipendentemente dai risultati raggiunti, cioè sottraendosi a quel giudizio democraticamente necessito che è il voto popolare; e utilizzando anzi, per la propria conservazione, proprio le istituzioni della Repubblica i cui membri hanno carattere elettivo, cioè il parlamento. Naturalmente, c’è una misura, un più e un meno nella realizzazione di tale deformazione. Il grado massimo nel processo di deformazione sembra essere stato toccato proprio con la legge elettorale attualmente in vigore, che consente a poche decine di dirigenti dei partiti di designare i membri delle due camere. In questo modo i politici di professione rischiano seriamente di diventare ceto. Il ceto è un insieme di persone che tende a regolare da sé la propria vita e le proprie relazioni interne, e che condivide la medesima posizione (in questo caso, una posizione di privilegio) rispetto ai diritti e ai doveri sociali. Il ceto politico si separa dal resto della società e così facendo stimola la chiusura di altri pezzi di società in ceto; le corporazioni si rinforzano, gli interessi, anche se condivisi all’interno della propria categoria, non riescono più a incontrarsi in un progetto di bene comune. Guidare la società diviene, in quest’ottica, mediare tra i diversi ceti, anziché indicare un vero bene comune, una frontiera lontana e grande, e nutrire la speranza di raggiungerlo attraverso le conquiste di ogni giorno. Per questo, anche, l’attuale legge elettorale va cambiata: perché è espressione – trasversale – di quella notevole parte di politici che sono ceto e lo rinforza. Le proposte referendarie hanno il merito di sollevare il problema, ma il cambiamento dell’insieme non può venire dalla sola legge elettorale. Come è successo anche in passato, le aspettative che i referendari – almeno alcuni – cercano di innescare sono di un cambiamento ideale, etico, di trasformazione culturale: aspettative sproporzionate a ciò che realmente il referendum potrebbe provocare. Di per sé, se anche si attuassero le modifiche volute dai referendum, i partiti potrebbero accorparsi in un partitone rimanendo sostanzialmente intatti; si tratterebbe di un partito meramente elettorale, soggetto allo smembramento dopo le elezioni; bisognerebbe anche proibire la formazione di gruppi parlamentari diversi da quelli indicati dal voto, ma non sembra possibile che questo parlamento, anche dopo una eventuale riuscita dei referendum, possa approvare una tale legge. Il referendum, nelle intenzioni dei suoi promotori, vuole creare l’incentivo elettorale, che appoggi un processo di unificazione politica in atto: ma c’è veramente un processo del genere in corso? C’è un grande ripensamento della politica e delle culture politiche che coinvolga i cittadini e i partiti? Oppure i due partitoni che si vorrebbero fare rispondono solo ad un’ottica gestionale, alla necessità – pur reale – di creare uno strumento adeguato a vincere le elezioni e a governare tranquilli, ma privo dell’unità e del progetto culturale che permetterebbero davvero di governare con la società e non senza – o contro – di essa? Di sicuro esistono già luoghi e iniziative – all’interno di entrambi gli schieramenti – dove queste domande vengono poste e dove si cerca di dare ad esse risposte serie: l’invito per tutti è quello di andarci e dare il proprio contributo.

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