Il fascino intramontabile della maglia gialla

Nel 1903, i giornalisti del quotidiano L’Auto scommisero con la stampa sportiva dell’epoca sul successo di una lunga e massacrante corsa a tappe sulle due ruote. Dei sessanta ciclisti alla partenza solo ventuno arrivarono al traguardo, ma l’evento affascinò la nazione: sulle strade che conducevano a Parigi, 100 mila spettatori accorsero a salutare quegli eroici corridori che portavano con sé cibo e attrezzatura, disponevano di soli due rapporti e per frenare usavano i piedi. Oggi le bici si sollevano con una mano, i ciclisti sono dotati di computer, monitor cardiaci e ricetrasmittenti, ma la prova fondamentale non è cambiata: vince chi sopporta meglio la fatica. Per questo a fare grande il Tour restano i campioni che l’hanno disputato e vinto, comparse o atleti leggendari accomunati da quell’unico obiettivo: una maglia gialla. Quest’anno, quando i ciclisti passeranno davanti al mitico bar “Au Reveil Matin”, dove partì la prima edizione, forse nessuno menzionerà Maurice Garin che la vinse, ma anche chi non mastica ciclismo ricorderà le imprese, in terra francese, di Anquetil e di Hinault, di Merckx e di Indurain, e per noi di Bartali e Coppi, di Gimondi e Pantani. Come cent’anni fa il Tour parte da Parigi, come allora in senso orario, che significa prima Alpi e poi Pirenei, come allora farà tappa nelle grandi città, in parte dimenticate nelle edizioni successive. Ma non aspettatevi un Tour di rimembranze: due cronometro, una cronosquadre, sette tappe di montagna, con tre arrivi in salita, faranno presto dimenticare i festeggiamenti e ricordare le imprese sportive. Forse nessuna competizione al mondo ha il fascino della Grande Boucle: 3.350 chilometri di fatica sotto il sole di luglio, dislivelli paurosi, scaramucce quotidiane per mettersi in luce, alimentano i toni della sfida, fanno fiorire le leggende, mantenendo alto, allo stesso tempo, il rispetto reciproco fra gli atleti. Per questo spirito Coppi lasciò vincere la tappa a Bartali che compiva gli anni, per castigarlo poi il giorno successivo, o Armstrong andò a vincere la tappa di Limoges, obiettivo desiderato dal compagno di squadra Casartelli, morto invece pochi giorni prima nella discesa dal Portet d’Aspet. In cent’anni il Tour ha incarnato la storia intera del ciclismo, le sue imprese e le sue contraddizioni che oggi, purtroppo, si chiamano ancora doping: la sciagura della morte di Tommy Simpson, sulle pendici del Mont Ventoux, non ha spento il fervore degli alchimisti, che continua da decenni. Oggi il fantasma della siringa spaventa più d’ogni altra cosa gli organizzatori del Tour, consapevoli che solo le gesta dei campioni, nel bene e nel male, possono onorare o deprezzare la corsa. Certo forse non rivedremo più azioni come quelle di Bartali nel ’38, quando, nel giorno dell’attentato a Togliatti, ricevette la telefonata di De Gasperi, presidente del Consiglio, che lo implorava di compiere una grande impresa per scongiurare in Italia una guerra civile. E Ginettaccio, cattolico fervente, democristiano convinto, ricompensò la fiducia dello statista infliggendo agli avversari ritardi in decine di minuti sul traguardo di Briancon. Oggi il Tour ha un altro dominatore, un altro campione simbolo della riscossa sulle vicende avverse della vita, Lance Armstrong che ne ha fatto la sua gara: “Il Tour non è solo una gara di ciclismo – ha affermato -, nient’affatto. È una prova. Ti prova fisicamente, ti prova mentalmente e ti prova persino moralmente”. Atleticamente più forte di tutti, motivato da una volontà di ferro da una madre che gli ha insegnato a non mollare mai, freddo calcolatore, minuzioso al punto da meritare il soprannome di “mister millimetro”, l’inquieto atleta di Austin nulla ha mai voluto lasciare al caso, visto che lo reputa ostile. “Non faccio nulla lentamente, nemmeno respirare – ha scritto nella sua biografia -. Faccio tutto ad un ritmo elevato: mangio velocemente, dormo velocemente. Desidero morire a cent’anni, avvolto nella bandiera americana e con la stella del Texas sul casco, dopo aver percorso, urlando, una discesa alpina a 75 miglia all’ora; e poi voglio coricarmi in uno di quei famosi campi di girasoli francesi, e spirare tranquillamente, in perfetta contraddizione con la violenta morte prematura che un tempo mi hanno annunciato. Una morte lenta non fa al caso mio”. I medici gli avevano dato il dieci per cento di possibilità di sopravvivere a quel cancro al testicolo che gli aveva ormai invaso polmoni e cervello di metastasi: eppure non volle arrendersi, cercando i medici migliori, documentandosi personalmente su farmaci e dosaggi della chemioterapia, premunendosi col depositare persino in banca la possibilità futura di avere i tre figli che ha oggi, visto che sarebbe diventato sterile, tornando ad allenarsi anche quando le forze sembravano averlo abbandonato, uscendo in bici anche quando gli altri riposavano. Lance non si era del resto arreso nemmeno alla infanzia difficile che gli era toccata in sorte: non ha mai voluto conoscere quel genitore che gli ha lasciato sola sua madre a 17 anni, porta il cognome di uno dei mariti che lei ha avuto, ha fatto una dozzina di mestieri prima di montare in sella, ha superato con rabbia la derisione subita per l’ultimo posto nella prima gara da professionista in Spagna, ha voluto e conquistato il titolo iridato, ha deciso a tavolino che avrebbe vinto il Tour, cosa che continua a fare da quattro anni. Ed oggi, che è consulente di Bush per la lotta al cancro, si appresta a vincere il quinto: “Rifiuto l’idea di non vincerlo”.

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