Il dilemma del licenziamento ingiustificato

Il tabù violato dell’articolo 18 accende il dibattito parlamentare e arriva in aula con un disegno di legge governativo. Crescono le voci di dissenso. Il parere di Stefano Biondi, sindacalista Cisl
Lavoratori - Articolo 18

La riforma del lavoro del governo Monti non ha assunto la forma della decretazione d’urgenza. Il disegno di legge passerà l’iter delle Camere ma resta blindato quanto ai contenuti e potrebbe provocare delle lacerazioni all’interno della maggioranza trasversale che lo sostiene. Come ha affermato il ministro del Lavoro Elsa Fornero a un convegno organizzato da Confcommercio «il mondo cambia e compito del governo è accompagnare tutti in questa direzione». Questa funzione educativa dell’esecutivo dei tecnici, riporta la cronaca, ha suscitato malumori anche da parte di alcuni ministri come quello della Salute, Renato Balduzzi che, da apprezzato costituzionalista, ha fatto notare ai colleghi i rischi di un conflitto tra la riformulazione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori e l’articolo 1 della Costituzione.
 
Oltre a scioperi e manifestazioni spontanee in tutta Italia, si levano appelli di giuslavoristi che invitano alla modifica della norma. Anche il vescovo Giancarlo Bregantini, responsabile della commissione lavoro della Cei, ha dichiarato che la «modalità con cui è ipotizzato il licenziamento economico potrebbe rivelarsi infausta». «Davanti alla questione dei licenziamenti, chiamati elegantemente, con un eufemismo, “flessibilità in uscita” – ha detto Bregantini – bisogna chiedersi se il lavoratore sia persona o merce, un prodotto da dismettere, da eliminare per motivi di bilancio, perché resta invenduto in magazzino».
 
Su questa linea di centralità della persona, si pone l’attività di Stefano Biondi, sindacalista Cisl del settore bancario e quindi addentro alle dinamiche remote che hanno provocato la crisi economica in atto. Ultimamente, ad esempio, si sta occupando della questione Monte dei Paschi di Siena (da approfondire in altri colloqui), capitolo emblematico per capire il caso italiano.
 
Concentriamoci sulla questione del mercato del lavoro e dell’articolo 18…
«Prima di tutto credo che sia necessario cambiare il nome. Perché usiamo il termine “mercato” quando parliamo di lavoro?  Non è una questione neutrale e ininfluente, ma sostanziale: il lavoro non è merce. L’uso di questa parola (“mercato”) implica una mutazione  genetica che investe anche l’impostazione della nostra Costituzione, in particolare dell’articolo 1. Si dovrebbe invece parlare semplicemente di norme e leggi che insieme ai contratti di lavoro regolano l’accesso e l’uscita dal lavoro, la gestione del suo rapporto, e tutto dovrebbe essere ispirato e orientato a realizzare pienamente la Costituzione».
 
E sulla modifica dell’articolo 18?
«È una questione che viene posta come centrale e prioritaria per risolvere i problemi del Paese, del suo ammodernamento e del suo sviluppo. Mi sembra un ragionamento inaccettabile e deviante dalle vere priorità che sono, invece, l’iniqua distribuzione della ricchezza, la questione legalità e l’urgenza di combattere la corruzione. Si tratta di recuperare le risorse necessarie a riattivare il lavoro e l’occupazione, ma su tutto ciò vedo prese di posizione che rischiano di essere di mera facciata senza misure incisive e rapide. L’inflazione sta mangiando quel che rimane dei redditi, la crisi sta mordendo sempre di più e la gente si sta progressivamente e rapidamente impoverendo».
 
Ma non è un fenomeno di carattere mondiale?
«In effetti, ci troviamo di fronte a una crisi di rappresentanza a ogni livello che ci sta portando verso una crisi forse irreversibile della sovranità nazionale. Il vulnus democratico è evidente quando ai popoli è impedito di autogovernarsi. In passato, per imporsi si usavano colpi di Stato militari, governi fantoccio e comunque si ricorreva spesso all’intervento militare sul campo. Oggi questo si realizza attraverso il controllo e il ricatto economico. Viene meno l’equazione tra libero mercato e democrazia. Diciamo che non serve più. Basta osservare il “paradosso cinese” dove si mescola la legge ferrea del capitalismo con un regime politico autoritario».
 
Come si pone, di fronte a questo scenario, il dialogo tra le parti sociali?
«Come abbiamo visto, il governo si è confrontato con le parti sociali, le ha ascoltate provando a interpretare secondo la “propria linea” le diverse posizioni espresse, ma credo che non sia equidistante, ma esecutore di interessi sovranazionali di natura finanziaria piegati alle esigenze delle multinazionali disponibili ad investire nel nostro Paese solo alle loro condizioni. Siamo, di fatto, una nazione a sovranità limitata. In questo stato di cose la concertazione è sostanzialmente finita. Veniamo solo consultati da un governo cosiddetto tecnico dotato di straordinari poteri, perché legittimato da un voto a suffragio universale».
 
Ma allora a cosa serve proporre una trattativa in queste condizioni?
«Era indispensabile per il sindacato farsi comunque interlocutore del governo e delle altre parti sociali, altrimenti la vicenda si sarebbe ripetuta in tutto simile a quella sul sistema pensionistico, dove il governo ha fatto tutto da solo con le conseguenze nefaste e ingiuste che sappiamo. E sulle tutele dei lavoratori siamo ben consapevoli di trovarci di fronte a norme dello Statuto che si applicano ormai solo al 20 per cento dei salariati, con la conseguenza di far sembrare privilegio ciò che rimane un diritto. Può essere anche realistico, davanti ai rapporti di forza in campo, accettare una lieve diminuzione di tutele del 20 per cento per poter innalzare il restante 80 per cento, ma il nostro obiettivo resta la realizzazione della giustizia sociale attraverso tutte le forme possibili di azione, legale e non violenta, per raggiungerla».
 
Il nodo resta il licenziamento non giustificato. Monti ha detto che si tratterà di vigilare sugli abusi, ma il tabù è caduto. Cosa può fare il sindacato?
«Nelle linee della proposta rispetto all’articolo 18 il governo ha accolto solo in parte le nostre obiezioni e il vulnus sui licenziamenti economici è grave. In pratica, se avviene per motivi economici, il licenziamento non sarà più sanzionato con il reintegro. Per l’azienda basterà pagare.L’aver infranto la difesa costituita dall’articolo 18 non ha solo un valore simbolico, ma riveste un carattere di civiltà costituzionale. Con il governo tecnico sembra di trattare con dei dirigenti di azienda che procedono senza tentennamenti in forza di direttive ricevute dagli azionisti di riferimento. Su tutto il resto della riforma ci sono dei notevoli passi avanti. Come nel caso del contrasto al fenomeno delle dimissioni in bianco. Ma si tratterà di vedere come sarà tradotta in norme specifiche e cogenti. Non vorrei che, alla fine, di fortemente prescrittivo troveremo solo la norma sui licenziamenti per motivi economici. Come sappiamo bene dall’esperienza, l’impegno morale a vigilare è cosa ben diversa dalla legge scritta».
 

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