Hollywood e Bollywood

La storia d’amore di Spielberg con Bollywood , ha intitolato il The Times di Londra. Infatti, la Dreamwork Skg, lo studio cinematografico del grande regista americano, ha deciso di firmare un contratto di 600 milioni di dollari con Anil Ambani, erede di uno degli imperi dell’industria e della finanza indiana, con investimenti da capogiro anche nel settore cinematografico locale. Lapsus del giornalista: Hollywood non Bollywood , ha commentato un parente di fronte al Tg2 che ne ha dato notizia. Ma non c’è nessun errore! Bollywood, con sede a Mumbai, un tempo Bombay – da qui Bo-llywood – è un conglomerato di società produttrici di film capaci d’immettere nelle sale cinematografiche una media di 600 pellicole all’anno. L’accordo permetterà a Spielberg la produzione di 10-12 film nei prossimi dodici mesi. Negli ultimi tempi gli accordi commerciali fra operatori indiani e occidentali si sono susseguiti con regolarità incalzante. L’industria informatica ha trasferito la Silycon Valley a Bangalore, Hyderabad e Chennai. Ratan Tata ha firmato accordi bilaterali con la Fiat, oltre ad aver, recentemente, perfezionato l’acquisto di Jaguar e Land Rover. Jindal è andato all’attacco delle acciaierie in Europa e Vijay Mallya, il re della birra e del whisky indiano, è ora uno dei grandi della Formula 1. È inutile nasconderlo: sentiamo la nostra identità occidentale in qualche modo vacillare. Ci resta difficile accettare l’idea di sedersi su un’auto indiana, di tifare per una rossa con un potenziale sponsor di whisky asiatico e, magari, fra qualche anno con un pilota che, invece di Schumacher o Raikkonen, potrebbe chiamarsi Kumar o Kartyketan. Avere, poi, nelle nostre sale film prodotti con capitale indiano o, addirittura, girati negli studi di Mumbai, una metropoli un tempo sinonimo di fame e povertà endemica, va contro ogni logica. Eppure, dobbiamo accettare i fatti. Il baricentro del mondo è ormai altrove, in Oriente. È lì che ci rispondono voci amiche e suadenti in perfetto italiano quando componiamo numeri verdi; lì si produce buona parte dei prodotti che vengono sistemati sugli scaffali dei nostri supermercati; lì soprattutto si stanno da decenni sfornando i cervelli della finanza, dell’ingegneria e dell’informatica che hanno cambiato l’equilibrio del mondo, quasi senza che ce ne accorgessimo. Spielberg non ha fatto altro che cavalcare la tigre. Il processo di globalizzazione non è neo-colonialismo, tentativo unidirezionale di perpetuare lo sfruttamento che l’Occidente per secoli ha imposto ad altre parti del mondo. Il globale sta mettendo in crisi i dogmi proprio dell’Occidente, che, di fatto, continua a vedere un gigante come l’India come un Paese affamato e, usiamo un eufemismo, in via di sviluppo. È difficile accettare l’evidenza di aver quel gigante in casa, ora, persino sullo schermo. Dalle favolose colline di Hollywood ci si sposta a quelle di Goregaon, sede di Bollywood. Quando si atterra a Mumbai, s’intravedono sulla destra nella foschia della cappa umida che avvolge di polvere la metropoli dell’Asia. È una favola? Non più.

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