Giustizia: non ci sono persone irrecuperabili

“In direzione ostinata e contraria”. Il senso dell’impegno dentro l’universo carcerario italiano. Le indicazioni emerse dalla decima Conferenza nazionale volontariato giustizia

Il carcere si apre con difficoltà a ciò che non è materia congeniale alla sua essenza: detenuti, guardie penitenziarie e, in subordine, personale “civile” che vi lavora. È stata perciò una sfida quella di promuovere ad inizio giugno, nella sala teatro della grande struttura detentiva di Rebibbia a Roma, un convegno come espressione della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia giunta al suo decimo appuntamento. Già il titolo, rimandando alla vena poetica di Fabrizio De Andrè,  “Un volontariato in direzione ostinata e contraria”, ha offerto il criterio che ha visto lavorare assieme realtà eterogenee come Aics, Antigone, Arci, Caritas, Comunità papa Giovanni XXIII, Cnca, Forum salute carcere, Jsn, Libera, Seac e 18 conferenze regionali sul tema.

Quale fosse la direzione ostinata e contraria l’ha chiarito, in apertura dei lavori, la presidente della conferenza, Ornella Favero, affermando che il volontariato non può esistere se non procede nella direzione indicata dall’art. 27 della Costituzione. Cioè le “pene” ( senza altri aggettivi qualificativi) non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. L’ostinazione poi, si concretizza nel credere fermamente che “non ci sono persone irrecuperabili”.

In questa prospettiva si sono snodati gli interventi e le testimonianze con una forte sottolineatura di un principio già affermato nell’ordinamento penitenziario, ma spesso messo in crisi dal pendolo carcerario oscillante tra restrizione e risocializzazione. Si tratta del principio fondamentale espresso dal verbo costituzionale – “tendere”- che indica la garanzia di un possibile reinserimento, nella gradualità del percorso rieducativo attraverso il passaggio dalla restrizione estrema del carcere alle misure alternative.

Un contributo illuminante è arrivato da Ivo Lizzola, professore di Pedagogia sociale e di Pedagogia della marginalità e della devianza presso l’Università degli Studi di Bergamo, che ha parlato, tra l’altro, del volontario come testimone del diritto alla speranza nella persona condannata: «tu ospiti la speranza che l’altro – uomo o donna della colpa e della pena – possa essere altro prima che lui ci creda».

Questa preziosa coltivazione della speranza come futuro non è portata da persone superbamente forti della loro innocenza, ma da persone che, con fatica, aprono finestre e spazi di futuro affinché si riapra il tempo di narrazioni diverse di libertà riconquistata.

Il volontario allora non può essere “comodo”, perché è portatore di un messaggio dissonante con il sentire comune e populista. Le storie della pena sono storie della comunità: riconoscerle porta la comunità a farsi ripartiva. Non punizione cieca ma esigente. Perché il passaggio rieducativo comporta un passaggio nella verità con l’assunzione della responsabilità dei propri comportamenti. Questo significa anche avere la forza di chiedere a chi ha sbagliato di essere risorsa per gli altri perché la giustizia è fatta di uomini non innocenti.

Il volontariato colma troppi vuoti istituzionali, ma solo un approccio vero alla persona può consentire, nella esecuzione della pena, la ricostruzione della verità della persona colmando un vuoto che la verità della giustizia non riesce a colmare. Assumono significato così esperienze di integrazione realizzate attraverso l’attività sportiva, il teatro, la produzione di informazione dal carcere e, prospettiva completamente nuova, offrire la possibilità a dei condannati di diventare volontari in case di accoglienza per persone emarginate, nell’assistenza a malati di Alzheimer o negli incontri con i ragazzi delle scuole – esperienza questa che, a Padova, ha raggiunto finora 8 mila ragazzi distribuiti su 320 classi.

L’attività del volontario nella giustizia non può ignorare la realtà e il vissuto delle vittime. Sono tali tutte quelle persone sulle quali ricadono le conseguenze dei reati con una particolare attenzione sia ai figli dei detenuti che delle vittime vere proprie dei reati. La testimonianza di Giovanni Ricci – figlio di Domenico, uno dei cinque agenti uccisi in via Fani il 16 marzo 1978 dalle Brigate Rosse, che sequestrarono e poi uccisero Aldo Moro – ha fatto sentire il dramma e la pesantezza di un percorso di liberazione dall’angoscia che solo un incontro, assistito e sostenuto da esperti, tra persone – vittima e autore di reato – è riuscito a illuminare ed orientare per non crescere nell’odio e nella rabbia.

Sulla “giustizia riparativa” si è concentrato il contributo di  Adolfo Ceretti, professore ordinario di Criminologia all’Università di Milano-Bicocca nonché coordinatore scientifico dell’Ufficio per la mediazione penale di Milano. Per Ceretti è importante il concetto di “ombra” come proiezione di sé quale coacervo di pregi e difetti che accompagna ogni persona.  Con l’ombra conviviamo e ci sentiamo rassicurati ma anche turbati ed inquietati. Tuttavia come società pretendiamo che il condannato non solo sia un ombra muta, ma che non ci sia in assoluto come tale, pretendendo , dal condannato, una purificazione totale che nessuno è in grado richiedere a se stesso.

Occorre riuscire a dialogare con la propria ombra e non proiettarla sugli altri. La parte più opaca di noi chiede di essere riconosciuta. Dalla rieducazione  la società non può pretendere di riavere uomini nuovi, ma  persone capaci di gestire l’oscillazione pendolare del sé interiore e aggrovigliato.

Oggi occorre puntare molto sulla giustizia ripartiva intesa come “giustizia dell’ago e del filo” e per questo è necessario un volontariato che impara a ricucire gli strappi, dentro e fuori.

E siccome il volontariato in carcere, con 10 mila presenze circa, è una realtà, occorre impegnarsi  sul fronte della esecuzione penale esterna dove l’esiguità del numero di volontari rappresenta plasticamente un mancato coinvolgimento della comunità estesa nella risocializzazione e integrazione del condannato . C’è il rischio reale che gli ammessi alle misure alternative, senza una presa in carico della comunità, diventino ulteriori “scarti” di una società che, di suo, scarta fin troppe persone. In questo senso una recente circolare del Dipartimento giustizia minorile e di comunità ha aperto nuove prospettive al volontariato anche attraverso la semplificazione delle procedure per svolgere tale importante azione sociale.

 

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