Gerusalemme, anche in Asia si protesta

Ripercussioni anche in Oriente a seguito della decisione unilaterale del presidente Usa di trasferire l’ambasciata statunitense nella città santa per cristiani, musulmani ed ebrei
AP Photo/Dita Alangkara

Dall’Indonesia alla Malesia, dal Pakistan fino al Kashmir, in Asia, terra di grandi religioni diverse e di grandi Paesi musulmani, la nuova presa di posizione degli stati Uniti su Gerusalemme ha suscitato reazioni notevoli. I maggiori sostenitori della causa palestinese sono sicuramente Malesia, Pakistan e Indonesia.

Prendiamo lo Stato musulmano più popolato al mondo, cioè l’Indonesia, con 261 milioni di abitanti. Il presidente Widodo ha affermato che «la dichiarazione del presidente Trump ha violato sia varie risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, sia quelle dell’Assemblea generale». La situazione in Indonesia non è per niente tranquilla, visto che fondamentalisti e persino sostenitori del Daesh sono sempre più presenti nella tollerante società indonesiana.

Il popoloso Paese musulmano, fino a poco tempo fa un esempio di tolleranza e convivenza civile, vede crescere intolleranza e malcontento verso le minoranze religiose. Appena ieri migliaia di persone hanno manifestato davanti all’ambasciata statunitense di Jakarta, come i membri del gruppo radicale Islamic Defenders Front (Fronte di difesa islamico) uniti con altri gruppi estremisti. «Chiediamo che il presidente Trump ritiri questa dichiarazione – ha affermato Slamet Maarif, il portavoce della manifestazione –. E chiediamo che il presidente indonesiano Widodo faccia dei passi concreti per rispondere adeguatamente a questo grande problema. Altrimenti, prenderemo noi in mano la situazione e agiremo a modo nostro. Siamo pronti a una guerra santa per Gerusalemme». Altre manifestazioni sono state organizzate da altri movimenti di ispirazione islamica, come il Prosperous Justice Party (Partito della prosperità e della giustizia), oppure il Nahdlatul Ulama. Said Aqil Siradj, responabile di quest’ultima organizzazione, ha affermato pubblicamente che la dichiarazione di Trump mette a rischio la pace mondiale.Yenny Wahid, direttore esecutivo della Fondazione Wahid, che promuove tolleranza e dialogo, ha affermato ai media che, incontrando l’ambasciatore statunitense in Indonesia, Joseph R. Donovan, ha dichiarato apertamente che «la mossa del presidente Trump ha provocato tensioni nei Paesi musulmani, compresa l’Indonesia».

Proteste di strada, anche violente, contro l’annuncio di Trump, si sono registrate a Jammu e nel Kashmir, lo Stato musulmano più popolato dell’India, fino a dover proclamare il coprifuoco. La grande moschea del Kashmir, la Jamia Masjid, è stata chiusa durante la festività del venerdì, per le violente proteste, e l’Imam, Mirwaiz Umar Farooq è stato messo agli arresti domiciliari. La gente ha, ad ogi modo, riempito le strade al grido di «morte all’America» e «Morte a Israele». Una situazione, questa del Kashmir, assai pericolosa per il conflitto che riguarda Pakistan e India.

Una coppia di noti musicisti musulmani pakistani, Gulzar & Ghulam Ali, hanno affermato che la decisione statunitense destabilizzerà la pace nel mondo e incoraggerà i giovani musulmani «a entrare nella via della radicalizzazione». «Gerusalemme è sacra per tutti noi, musulmani, cristiani e ebrei. Ma è stata occupata con la forza nel 1967, e al momento, gli Usa hanno giustificato quest’atto. Tutto questo farà solo aumentare il malcontento dentro il mondo musulmano contro l’Occidente», ha affermato ancora Gulzar.

La decisone di Trump, non è stata ben accolta nemmeno dai leader cristiani della regione. Solo un esempio: il reverendo Gomar Gultom, segretario generale della Comunione delle Chiese in Indonesia, ha valutato la mossa di Trump come «una forma di abbondono del lungo cammino intrapreso dai cristiani a livello internazionale insieme a tutta la comunità internazionale per trovare una soluzione che comprendesse i due Stati, quello israeliano e quello palestinese, per una risoluzione definitiva del conflitto».

Gerusalemme appartiene a ogni popolo ed è sul serio un “patrimonio dell’umanità”, se le tensioni da quei vicoli stretti e da quella spianata, arrivano persino nelle strade delle nostre città asiatiche, magari a 10 mila km di distanza. A testimonianza che, più che mai, tale questione esige una soluzione condivisa dall’intera comunità internazionale.

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