«Non faremo passare neanche un chiodo». È questa la promessa esplicita dei portuali del Calp di Genova quando hanno deciso di fermare il traffico di armi dirette in Israele.
Ancora prima si sono fatti notare per aver fermato il flusso di armi dirette in Arabia Saudita, ricevendo l’elogio di papa Francesco.
I genovesi, si sa, sono rudi e chiari. L’esempio dei lavoratori è stata la molla che ha fatto scattare il forte consenso popolare allo sciopero del 22 settembre 2025 e le decine di migliaia di persone accorse al porto di Genova per consegnare alimenti diretti a Gaza con la Sumud Flotilla.
Ma per quanto tempo sarà possibile mantenere alto il livello di attenzione? E poi non esiste ancora una legge, la 185/90, che detta norme precise sul commercio delle armi e va quindi solo applicata?
Perché non cercare di mettere insieme le istituzioni e la società civile per capire come garantire la correttezza della filiera logistica portuale che interessa i titolari delle grandi imprese coinvolte, i lavoratori e quindi i sindacati?
Nasce da queste domande la proposta strategica, avanzata da Weapon Watch, per la creazione di un osservatorio permanente e condiviso sui traffici di armamenti nei porti italiani, a partire da un focus iniziale sul porto di Genova.
Ne abbiamo parlato con Carlo Tombola, presidente di Weapon Watch, centro di ricerca che già svolge da anni un’attività di studio e analisi del traffico di armi nei porti europei e del Mediterraneo grazie ad un collegamento costante con le organizzazione dei lavoratori portuali che hanno più volte dimostrato la capacità di fermare il sistema delle armi.
Da dove nasce la vostra proposta?
L’iniziativa nasce, come è noto, dalle proteste dei lavoratori portuali (in particolare il Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali – CALP) contro il transito di materiale bellico, ma mira a superare la logica dello scontro sporadico per istituire un meccanismo di governance trasparente e democratico.
Quale è concretamente il vostro obiettivo?
L’obiettivo è quello creare un tavolo di mediazione che includa tutti gli attori coinvolti: lavoratori e sindacati, autorità statali (Prefettura, Autorità Portuale, Capitaneria di Porto), istituzioni locali (Comuni), operatori economici (armatori, terminalisti) e società civile. Questo organismo avrebbe il compito di discutere, monitorare e stabilire regole condivise, superando l’attuale “segretezza commerciale e amministrativa” che caratterizza il settore.
Da quali esigenze nasce questo progetto?
Crediamo che sia necessario bilanciare il diritto all’opposizione contro i traffici di armi con la continuità operativa di infrastrutture vitali per l’economia nazionale. Non scordiamoci poi che esistono gravi rischi per la sicurezza urbana legati allo stazionamento di navi cariche di esplosivi in prossimità di centri abitati e terminal industriali. Il modello proposto rappresenterebbe un’iniziativa senza precedenti in Europa, dove le questioni “politiche” sono generalmente escluse dalle normali dinamiche sindacali portuali.
Questa proposta di mediazione per arrivare a regole condivise è condivisa dai portuali del Calp?
Prima di dire in pubblico qual era la nostra proposta, ne abbiamo parlato con loro e loro sono pienamente d’accordo. L’abbiamo fatta circolare poi tra gli altri Calp/Gap, i gruppi che si sono formati soprattutto a Livorno, a Ravenna e a Salerno.
Nella prassi di lotta sindacale, portuale, storica direi che il Calp rappresenta un po’ come la tradizione, c’è certo lo scontro, c’è l’opposizione, c’è l’indurimento sui temi della guerra. Però non si può bloccare un porto intero, non si possono bloccare i porti di un Paese. Non si può fisicamente proprio, al di là della forza politica che si può esprimere, non si può perché sono mille rivoli, perché ci sono tanti operatori. In ogni porto ci sono molti interessi contrastanti.
I porti non sono aree omogenee, sono aree che hanno diverse gestioni anche giuridicamente diverse. Ci sono i terminalisti che hanno spazi in proprio nel porto, altri che hanno concessioni governative, altri che sono subentrati a concessioni e stanno in subaffitto, insomma sono cose molto complesse e traffici molto diversi.
Che tipo di violazioni avete riscontrato come Weapon Watch?
Ci sono porti dove abbiamo già visto transitare illegalmente gli armamenti perché diretti verso un Paese in guerra, ma la violazione della legge si consuma anche nei tentativi di proporre merce militare come fosse civile. Il caso più eclatante è emerso di recente con un’inchiesta giudiziaria che interessa il porto di Ravenna grazie anche al lavoro di ricerca di Linda Maggiori, una giornalista nostra associata.
Chi dovrebbe siglare questa intesa sull’Osservatorio?
Di sicuro i lavoratori e i loro rappresentanti. Una mediazione con i sindacati presenti nei porti secondo me è matura. Abbiamo verificato che non solo a Genova, ma anche in altri luoghi (Livorno, Ravenna, Taranto) c’è un riavvicinamento nei fatti del fronte sindacale nei porti e anche fuori dei porti.
Poi c’è il lato società civile. Chi può rappresentarla? Beh, noi abbiamo detto intanto i comuni e i consigli comunali, cioè le istanze che sono state elette e che sono presenti. In città come Ravenna, gli enti locali sono fra i padroni dei porti e anche delle società terminaliste.
Poi le autorità, perché ci sono autorità che hanno le competenze che la legge attribuisce loro: prefetto, autorità portuale e capitaneria di porto, guardia costiera, che hanno le competenze a mare, a terra e nel movimento degli armamenti in particolare.
Infine, gli operatori nei porti, a partire anche dagli operatori pubblici. Faccio un solo esempio, quello dei Vigili del Fuoco che hanno competenza diretta in caso di incidente. E siccome stiamo parlando anche di munizionamento e quindi di esplosivi, è a maggior titolo direi che sia necessaria una voce almeno che rappresenti il tema della sicurezza professionalmente parlando, sanno cosa fare in caso dal punto di prevenzione soprattutto degli incidenti.
Chi sono gli operatori economici più importanti a Genova? Chi sono gli armatori?
Occorre partire dal soggetto dominante che è MSC, la società controllata da Gianluigi Aponte, leader mondiale nello shipping commerciale con circa mille navi, con sede a Ginevra ma molto radicata a Genova dove nel luglio scorso ha comprato dalla Gedi degli eredi Agnelli, il controllo del quotidiano Il Secolo XIX.
MSC ha anche un non indifferente business nelle crociere, quindi nel turismo, non soltanto container. Poi ci sono i concorrenti di Aponte, PSA, Maersk, Hapag-Lloyd, quest’ultima alleata con Spinelli, l’imprenditore rimasto coinvolto nello scandalo che ha falciato il vertice della Regione Liguria nella gestione Toti, è rimasto al suo posto con le banchine in concessione.
Cosa significa per i non esperti di porti, il termine banchine?
Sono gli attracchi delle navi, soprattutto delle portacontainer e degli spazi retrostanti che sono i depositi in cui vengono parcheggiati temporaneamente i container, sia in arrivo che in partenza.
In che modo tali aree sono interessate a sicurezza e prevenzione di incidenti rilevanti?
Il porto non è una realtà avulsa separata dalla città. Da noi la città storica e il porto convivono da secoli. È una delle ragioni per cui abbiamo anche fatto notare, da ormai da molto tempo, che quando arriva una nave carica di munizioni, cioè di esplosivo, che parcheggia a 400 metri da uno dei quartieri più abitati di Genova, cioè Sampierdarena, si compie un grave errore, una grave mancanza di prevenzione.
Non si possono stazionare le navi cariche di esplosivo in un raggio che è meno di un terzo di quello, per esempio, registrato nell’esplosione di Beirut (un disastro che ha causato oltre 200 vittime e 7 mila feriti oltre alla distruzione di un terzo della città, ndr). Normalmente, in caso di incidente con esplosivi militari, il raggio minimo in cui si rilevano i danni è di un chilometro. Perciò 400 metri è veramente quasi nel fulcro dell’esplosione. E di fianco di queste banchine dove arrivano le navi con gli esplosivi ci sono terminal petroliferi e chimici che potrebbero portare a un disastro ben maggiore.
Ci sono esperienze simili di osservatorio in altri porti europei?
No, per quello che ne sappiamo noi. Da molti anni mi occupo di questi temi. Per parlare concretamente, abbiamo visitato alcuni 2-3 anni fa il porto di Amburgo insieme ai portuali del Calp. Lì ci hanno detto anzi che nessun tema di tipo politico che esca dalla trattativa meramente sindacale o di sicurezza e organizzazione del lavoro, può essere affrontato da un sindacato dei portuali. Temi di questo genere da decenni non entrano nel conflitto economico sindacale dei porti europei.
Quindi sarebbe una prima assoluta.
Sì, direi che sarebbe un interessante esperimento. Noi stiamo spingendo: la sindaca di Genova, Silvia Salis, ha detto pubblicamente che è una proposta interessante. Altri componenti della giunta comunale lo hanno ripetuto. Anche Il Secolo XIX ne ha parlato, così come le pagine locali di Repubblica.
Noi ci aspettiamo adesso le altre reazioni. Mi rendo anche conto delle resistenze possibili da parte del prefetto e dell’autorità portuale, ma credo che convenga a tutti adottare un regime di trasparenza.
Se non parte questo osservatorio restano i portuali che saranno sempre più esposti a ritorsioni e denunce…
Non hanno avuto paura ad affrontarle, ma se c’è copertura sindacale, e finora c’è stata, non è così semplice aggredire il diritto di sciopero laddove il lavoratore lo esercita.
Ma all’inizio della loro azione di protesta non sono stati anche inquisiti penalmente?
Sì. Ma sono stati inquisiti sulla base di altre, come dire, presunzioni di reato. Per esempio, il fatto di detenere dei fumogeni che hanno lanciato per protesta contro le navi saudite poteva rappresentare un attentato alla sicurezza dei mezzi di trasporto. È stato proprio uno dei capitoli dell’incriminazione che hanno ricevuto, oltre ad associazione a delinquere. Però tutte queste accuse sono state archiviate.
Si può dire che dall’incontro con papa Francesco, il profilo del Calp genovese sia cambiato. È cambiato soggettivamente, ma anche oggettivamente, per cui il Calp non si può liquidare con una banda di giovani delinquenti. Calp è una realtà che è capace di dire le cose che molti pensano e di praticare delle forme di lotta pacifica che portano in piazza decine, centinaia e migliaia di persone. Se la proposta fa strada è perché c’è bisogno di un terreno condiviso. Io direi che i presupposti sono favorevoli.
Prevedete a breve un incontro pubblico di presentazione del progetto?
Sì, invitando tutti quelli che secondo noi sono gli interlocutori che dovrebbero sedersi attorno a quel tavolo.
Speriamo di non trovare la porta chiusa. Weapon Watch ovviamente continuerà a fare la sua parte di raccolta di materiale e di prove che i traffici, anche quelli non legali, continuano ad avvenire. E la questione è sempre più attuale, dato che il caso di Israele non si è chiuso con la semitregua in corso. Bloccare il transito di armi verso un’area a rischio di crimini di guerra è una causa fatta propria da gran parte dell’opinione pubblica che va oltre l’appartenenza politica e sindacale. Perché si tratta di sapere da che parte della storia si decide di stare