Fioroni: l’uccisione di Moro ha cambiato l’Italia

La Commissione parlamentare di inchiesta ha fatto emergere novità rilevanti su un passaggio epocale nella storia della Repubblica. Pubblichiamo parte dell'intervista al presidente Giuseppe Fioroni, tratta dal numero di maggio della rivista Città Nuova.
Aldo Moro , archivio Famigni

Perché una seconda Commissione parlamentare di inchiesta?
L’uccisione di Aldo Moro non è solo un avvenimento tragico, relativo a quegli anni, ma è un evento cardine che ha cambiato il  corso della storia italiana, ha mutato cioè il futuro dei nostri figli. Moro aveva compreso che la fase costituente della democrazia italiana, quella cioè costruita dalle grandi forze politiche che avevano scritto la Carta del 1948, era terminata. Era necessario costruire una “democrazia integrale” che ridesse fiducia al rapporto diretto tra eletto ed elettore, allargando la base del consenso popolare su valori di fondo che potessero garantire successivamente l’alternanza dei governi.

Quando nel 1978 votava ancora il 90% degli elettori, egli vedeva con preoccupazione i primi segnali di una riduzione nell’accesso al voto come incrinatura di un rapporto di fiducia nel Paese e aveva ben presente la condizione della Dc che era “obbligata” a governare con i suoi alleati perdendo tuttavia la sua idealità. Un partito cioè frenato dalla gestione del potere che celebrava i suoi congressi come semplici accordi elettorali senza una visione sul futuro del Paese.

E poi c’era il Pci…
Dall’altra parte c’era il più grande partito comunista d’Occidente che prendeva milioni di voti, ma trasmetteva un senso di alienazione e frustrazione ai suoi elettori, non avendo l’opportunità di trasferire la sua proposta in capacità di governo. Tale stato di “democrazia bloccata” conduceva ad una erosione di consensi verso i gruppi extraparlamentari e lo scivolamento verso i terribili anni di piombo con la nascita delle Brigate Rosse. Questo è ciò che aveva capito Aldo Moro, la necessità, cioè, della condivisione di almeno un 80% della popolazione italiana, intorno ai valori di giustizia sociale e libertà, di politica estera e di difesa. Un periodo di 5 anni, dopo il quale si sarebbe aperto un periodo di fisiologica alternanza tra forze politiche destinate a rimanere diverse.

Questa prospettiva rompeva gli equilibri di una certa politica estera?
La sua visione internazionale era sgradita a molti. Nel 1971 tenne un discorso all’Onu che sembra scritto oggi. Diceva che non ci possono essere Paesi destinati a scrivere la storia e altri rassegnati a subirne le scelte, che non si può credere di costruire la pace sulla base della repressione. Pur restando nella fedeltà atlantica di un mondo diviso in due blocchi, sottolineava la necessità della cooperazione internazionale e della multilateralità per il governo di un mondo dove nessuno si senta escluso. In questo senso si comprende la scelta del 1973 di compiere una lunga visita nei Paesi del Medio Oriente e di coniare la formula “L’Europa è il Mediterraneo”. Ed è sempre Moro che promuove la prima conferenza tra l’Europa e i Paesi del Nord Africa perché si rende conto che quel mondo che si affaccia sullo stesso mare è il giardino di casa nostra. Se questo brucia, non possiamo credere di restarne indenni. In tale orizzonte si spende a favore della elezione a suffragio universale del Parlamento europeo perché sa bene che l’Italia da sola è molto debole e solo un soggetto continentale coeso può agire a favore della pace in un mondo in equilibrio tra due superpotenze.

Una visione ampia che non poteva non creare dei nemici. Le sue scelte a livello nazionale e internazionale rompevano degli equilibri precostituiti, rendendolo inviso al blocco occidentale e a quello dell’Est. È stata la sua apertura che ha facilitato il percorso dell’eurocomunismo di Berlinguer affrancandolo dal controllo sovietico. Moro aveva un pensiero lungo, proprio degli statisti che non ragionano avendo come obiettivo le prossime elezioni.

(L’intervista continua sulla rivista Città Nuova)

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