Pochi figli in Italia: manca il lavoro

Intervista allo statistico e scrittore Roberto Volpi sulla situazione della natalità nel nostro Paese, cause e conseguenze di un fenomeno sempre più negativo

Tante le motivazioni che portano gli italiani nel ritardare a metter su famiglia. Così facendo l’Italia rischia però di divenire un’enorme casa di riposo a cielo aperto. Stando ai dati Istat, il trend della natalità è negativo. Diminuiscono i nati, i nati da genitori entrambi italiani, e il numero medio di figli di donne con cittadinanza italiana è il “più basso di sempre”. L’età media in cui si diventa madri è sopra i 30, e ciò non porta a metter su famiglie numerose. A peggiorare le cose, il Covid-19 che, se non ha strappato alla vita, ha peggiorato gli entusiasmi, rendendo problematici i rapporti, i matrimoni, e difficoltoso far programmi sereni. Eppure, l’Italia è sì o no consapevole che è proprio nel suo grembo che si può ancora sperare nel futuro del Paese? Ne abbiamo discusso con Roberto Volpi, statistico e scrittore.

 

In questo grande momento di crisi pandemica e incertezze su più fronti, che andamento sta avendo l’Italia con le nascite?

Ad oggi i dati delle nascite più aggiornati arrivano ad ottobre del 2020. In pratica si tratta di nascite/concepimenti avvenuti prima dell’arrivo in Italia della pandemia. Malgrado non si possano azzardare ancora giudizi relativi alle ripercussioni di questa sulle nascite, possiamo però dare una valutazione in sé dell’andamento delle nascite dei primi 10 mesi del 2020. E in questi mesi abbiamo avuto circa 10 mila nascite in meno rispetto a quelle del 2019. E scenderanno ancora nel 2020, con un quoziente di natalità di 6,8 nascite annue che ci colloca lontanissimi dalla media europea (9,6). Se, poi, come si paventa, la pandemia dovesse avere un influsso negativo sulle nascite a venire, lascio al lettore il giudizio di dove potrebbe andare a finire, in Italia, la natalità.

 

Crede sia giunto il momento che il nostro Paese debba darsi una mossa sulla natalità, oppure è consigliabile, ad oggi, proprio causa Covid, evitare di metter al mondo un figlio?

Sono affermazioni insensate quelle che dicono che in un periodo come questo, con l’epidemia di Covid appunto, non convenga metter al mondo un figlio. Affermazioni che vengono da una concezione opportunistica della vita, da un pensiero egoistico, chiuso in sé, che se vincente ci trascinerebbe tutti a fondo: noi, i nostri figli, il Paese, il futuro. Non c’è dunque alcuna alternativa a ciò che lei chiama “darsi una mossa”. E siamo pure in ritardo.

 

Fra i primi ingranaggi da sbloccare: il lavoro per i giovani?

Sì, assolutamente. La prima leva capace di rimettere in moto quella goccia di vitalità demografica che resta ancora all’Italia è trovare un sistema di lavoro “smaccatamente” a favore dei giovani, e non solo basato: (a) sull’anzianità, (b) sull’esperienza pregressa, (c) sulle qualità individuali che hanno avuto già modo di mettersi in luce. La seconda questione è la durata degli studi e il loro rapporto col mondo del lavoro. Se, come succede, si esce cioè dall’università a circa 27 anni e ci si deve ancora guardare attorno, impiegando altri 2-3 anni per approdare a un lavoro spesso mal retribuito, allora non ci sono speranze. La terza riguarda il cosiddetto “ascensore sociale”, vale a dire la possibilità di farsi strada nella vita anche partendo da posizioni, considerate sulla scala economico-sociale, svantaggiate o inferiori. Questo ascensore è oggi fermo e i giovani faticano ad avere prospettive.

 

Fra le cause della denatalità, incide il fatto che gli italiani si sposano tardi, quando l’età fertile per le loro donne diminuisce?

Ovviamente. L’età media al matrimonio è in continua ascesa. Oggi l’età media delle donne al matrimonio è di 34 anni e di 32,5 l’età media delle donne che si sposano da nubili. Sono età alte per mettersi poi nella prospettiva dei figli. Ma c’è un altro dato: si tende a sposarsi sempre di meno. In Italia ci sono appena 3 matrimoni annui ogni mille abitanti. E fortuna che regge un po’ meglio il Mezzogiorno col matrimonio religioso (la forma di unione tra uomo e donna all’interno della quale si mettono al mondo mediamente più figli), mentre al Nord sta scomparendo.

 

Cosa comportano, quindi, gli attuali squilibri demografici?

In Italia ci sono state nel 2019, 151 morti ogni 100 nascite, contro le 112 morti ogni 100 nascite dell’Unione europea. Con uno squilibrio di questo livello, salito addirittura, con la pandemia, a 172 morti ogni 100 nati, si va dritti verso l’estinzione dell’Italia e degli italiani. Del resto le previsioni a livello internazionale danno l’Italia tra i 30-40 milioni di abitanti alla fine del secolo. Ma si tratta di previsioni ottimistiche. Potremmo arrivare a meno della metà degli abitanti attuali, che saranno ancora più vecchi e senza più nessuna carta da giocare, sul piano della fecondità e della natalità.

 

Sulla natalità può incidere in positivo il fattore immigrazione?

L’immigrazione ha un risvolto sicuramente positivo in termini di fecondità/natalità. Le donne italiane mettono al mondo meno di 1,2 figli per donna, cioè una miseria che s’innalza a meno di 1,3 con l’apporto delle donne straniere residenti in Italia. Vi è però un contraccolpo negativo: il fatto che le donne straniere residenti in Italia facciano più figli degli italiani sembra esercitare un effetto depressivo sulla fecondità delle donne italiane. Il che, per donne che ormai quasi non fanno più figli, è tutto dire.

 

L’ex ministro della famiglia Elena Bonetti aveva emanato il Family Act, un provvedimento che prevede un assegno mensile per i figli fino all’età adulta, sconti per gli asili, agevolazioni per gli affitti delle coppie composte da under-35 e per i figli maggiorenni iscritti a un corso universitario. Può essere d’aiuto questo provvedimento?

Non del tutto, perché, come ho già detto, occorre dare lavoro ai giovani finché sono giovani, per invogliarli a formare coppie con la prospettiva dei figli. Ma non si poteva chiedere tanto a quel provvedimento. Il Family Act resta comunque un “atto” organico pensato per la famiglia. Il primo che fa ben sperare. Occorrerà però dare larga diffusione/spiegazione dei suoi contenuti.

 

Quali altre politiche dovrebbero essere, dunque, attivate?

Oltre alle politiche specifiche per le famiglie esistenti, anche per quelle che non si formano. In Italia sono infatti poche le famiglie fondate sul matrimonio, ma non brillano neppure le coppie o famiglie di fatto, e poche sono le stesse convivenze. Ciò perché non c’è una buona “formazione alle coppie”. In una situazione siffatta si deve, allora, cercare di riattivare i meccanismi inceppati. È chiaro che non si tratta soltanto di “meccanismi economici e materiali”, ci sono anche “meccanismi culturali e valoriali” nella caduta dell’appeal della coppia e della famiglia sui giovani d’oggi. Ma intanto è necessario metter mano ai primi che sono, paradossalmente, quelli più facili da aggredire. Con il lavoro dei giovani, innanzitutto, e subito dopo con interventi per facilitare l’affitto e l’acquisto di case in cui vivere.

 

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