Figli delle guerre

Sono 250 milioni i bambini minacciato da un conflitto. Uno su tre vive da rifugiato e 31 milioni sono stati costretti a lasciare il loro Paese. Le loro storie sono un grido alla nostra coscienza

Aylan lo abbiamo visto arenato sulla spiaggia. Con pantaloncini blu e maglia rossa fuggiva dalla guerra in Kurdistan. Abbiamo an­che conosciuto Omran, con il volto insanguinato e ricoperto di polve­re, depositato sulla sedia arancio di un’autombulanza dopo che una delle tante bombe cadute su Alep­po aveva colpito il suo rifugio, fe­rendo anche il fratellino. Non ha volto invece Miriam, somala di 11 anni, che ha visto torturata a mor­te la madre, incinta del fratello: si rifiutava di emettere qualunque suono, se non singhiozzi. E per i media resta sconosciuta anche Edica, che tornava di notte nel bo­sco, a Srebrenica, in Bosnia, dove i serbi avevano ucciso il padre spe­rando di trovarlo ancora vivo. Sono tutti questi i figli delle guerre: bambini che hanno smesso di esse­re tali perché violati negli affetti, nel corpo, nella psiche, in quel fu­turo che avrebbe dovuto apparte­nergli e che gli è stato rubato da chi ne ha distrutto le case e le famiglie, o li ha costretti ad imbracciare un fucile o persino a farsi saltare in aria. Sono stati traditi da chi li ha violentati o mutilati per vendetta, privandoli di cibo, cure, istruzio­ne. In Europa li abbiamo etichet­tati come minori migranti non ac­compagnati, in tanti Paesi africani sono bambini soldato o schiavi dei moderni terroristi, in America la­tina sono figli di desaparecidos o migranti ambientali derubati della terra, in Vietnam sono deformati dalle tonnellate di sostanze chimi­che respirate dai genitori e impres­se nel loro Dna, in Medio Oriente un numero imprecisato popola ci­miteri e campi profughi.

Il rapporto del segretario dell’Onu, pubblicato lo scorso dicembre, foto­grafa in 40 fitte pagine milioni di esi­stenze fragili che Afghanistan, So­malia, Sud Sudan, Yemen, Colombia, Myanmar, Filippine, Nigeria e altri Paesi non tutelano a sufficienza: una pugnalata all’innocenza di tante pic­cole vite e uno spietato atto d’accusa ai grandi. Sono in effetti 31 milioni i bambini nel mondo che vivono fuori dalla loro nazione e 11 milioni sono relegati nei campi profughi dove una doccia, una colazione, la possibilità di imparare a leggere o di raggiun­gere la maggiore età sono chimere, e questo nonostante migliaia di Ong si prodighino per salvarli. Ed è gra­zie al loro impegno, se i numeri e i casi continuano a restare persone e possibilità di riscatto. Iniziamo su queste pagine, assieme ai nostri corrispondenti esteri, un’inchiesta sulle vittime dei conflitti che su cit­tanuova.it continuerà con contenuti speciali. Lasciamoci interpellare da questi bambini che, come ricorda­va papa Francesco, non giacciono in una culla agiata ma in «squallide mangiatoie di dignità». Una piaga da curare come già fanno migliaia e mi­gliaia di volontari nel mondo intero.

 

Noi, figli dell'”agente arancio”, senza occhi, né braccia

di George Ritinsky

Posso dire di averne abbracciati tanti. Sono i bambini del Vietnam nati con malformazioni congeni­te. La ong Green Cross registra 3.500 nuovi nati ogni anno in tali condizioni. I loro genitori hanno subìto una mutazione genetica a causa di 43 milioni di tonnellate di defogliante contenente diossi­na, il famoso “agente arancio”, e di 30 milioni di tonnellate di altri pesticidi, sparsi dagli aerei mili­tari statunitensi sulle foreste di Vietnam, Laos e Cambogia duran­te la guerra chimica che avrebbe dovuto sconfiggere il comunismo e che ha devastato diversi popoli. Entrare in una sala operatoria e veder ricostruire dita, mani agili e volti non si dimentica, come non si cancella il turbamento di fronte a malformazioni non riscontrabili in altre parti del globo se non in Vie­tnam. Un medico mi ha confidato sottovoce che «libri di medicina non classificano queste malattie, perché sono presenti solo qui o nei pressi di fabbriche che nel mondo producono questi pesticidi». A 40 anni dal conflitto nessuno si assume responsabilità dell’ac­caduto e si preoccupa dei risarci­menti. Ma non sono i soli crimini commessi verso i bambini nelle re­gioni del Sud-Est asiatico. Il caso dei rohingya è noto anche in Oc­cidente, ma quanti minori ci sono tra i 500 mila profughi arrivati in Bangladesh, per sfuggire alle per­secuzioni del Myanmar? Quanti se ne contano tra i 150 mila rifugiati in Malaysia? In genere le famiglie rohingya hanno 4 figli a testa e i calcoli hanno quindi tanti zeri. I conflitti etnici sono una tragedia silenziosa che tocca i bimbi ka­ren, kachin, lisù. La Thailandia, ad esempio, non consente ai figli del milione di profughi birmani di frequentare le scuole perché non posseggono documenti regolari. Le ong provvedono a scuole alter­native in birmano in modo che i piccoli possano conseguire un ti­tolo di studio nel Paese di origine. E a questi bambini non è concesso di godere delle spiagge che fanno gola agli occidentali: la loro vita è fatta di lavori duri e umilianti.

 

Noi, figli di Bertita, morta per difendere la madre terra

di Silvano Malini

L’Honduras è nei fatti in guerra da almeno 20 anni, sia con i nar­cos che con le multinazionali che in combutta con il governo si ac­caparrano le risorse naturali. Ag­gressioni, minacce e assassini di appartenenti ad organizzazioni in­digene e contadine schierate a di­fesa del territorio non si contano. Muoiono colpiti dai sicari e dalla stessa polizia e lasciano tanti figli piccoli: sono gli orfani delle guer­re ambientali obbligati ad emigra­re perché minacciati di morte, o a vivere in stato d’assedio, perché hanno raccolto il testimone dai ge­nitori.

È il caso di Olivia, Berta, Laura e Salvador Zúñiga. Sono i figli di Berta Caceres, l’attivista indige­na assassinata nel marzo del 2016 perché voleva impedire che la diga Agua Zarca, alterasse il percor­so di un fiume sacro ai Lenca, la maggiore etnia del Paese. Cinque suoi compagni di lotta erano stati assassinati e Berta aveva rivelato, dietro queste morti, gli interessi di grosse multinazionali. I figli di Bertita hanno chiesto una com­missione internazionale per far luce sull’assassinio, ma in tre han­no dovuto lasciare l’Honduras e vi­vono ora tra Messico e Argentina. «Io sono stata l’unica a cui mamma ha permesso di restare – racconta Olivia – e mi sono unita alla sua lotta fondando spazi per i giovani indigeni e le loro giovani madri. Ho resistito all’esilio, ma per tanti altri è l’unica alternativa come per i figli di Maria Enriqueta Matute, un’indigena tolupán, o per quelli di Margarita Murillo, una leader “campesina” riconosciuta in tutto il Paese». Il golpe del 2009 che depose il pre­sidente Zelaya a favore di un go­verno fantoccio voluto dagli Usa ha visto Olivia, appena diciottenne, a capo di un collettivo di resistenza: «Mamma – dice – sosteneva che il calvario della Madre terra e dei popoli indigeni era partito da quel gol­pe perché in seguito furono appal­tati i progetti per 300 centrali idroe­lettriche e 870 miniere». Olivia lotta con la nonna e il papà in Honduras. Bertita invece viaggia per il mondo. Ha parlato al Parlamento europeo e incontrato rappresentanti dei go­verni di Spagna, Olanda, Canada per bloccare i disegni predatori di alcune imprese, «“mostri dell’eco­nomia”, che pretendono di imporci uno sviluppo occidentale che non è il nostro, perché impastato di terrore e sterminio, è contro la vita». Pur grati della solidarietà e del sostegno internazionali, per i figli di Bertita la forza di resistere risiede nel patri­monio spirituale dei Lenca: «Per noi la vita è qualcosa che va oltre il cor­po biologico, perché è una luce che si trasmette a chi resta sulla terra. Questo è il compito degli antenati: essere guide. E la mamma è ora una di queste guide».

 

Noi, bimbi siriani, una generazione senza diritti

di Bruno Cantamessa

Non c’è solo la guerra in Siria. Non ci sono neppure solo generi­ci rifugiati: ci sono bambini, tanti tanti bambini. Circa 800, solo nel 2016, sono stati sottratti all’Isis senza poter impedire che venisse­ro torturati, mutilati e stremati da fame e sete. Alcuni hanno ucciso e hanno visto altri diventare marti­ri suicidi. Dei 16 milioni di siriani sfollati interni e rifugiati nei Paesi limitrofi (soprattutto in Turchia, Libano, Giordania, Iraq ed Egitto) il 50% è costituito da minori e qua­si 4 milioni hanno meno di 5 anni. Il Libano, un piccolo Stato gran­de come l’Umbria, è il Paese con il maggior numero di rifugiati siriani al mondo: in pratica un rifugiato ogni due libanesi. Una situazione esplosiva anche perché il gover­no ha disposto di accogliere nelle scuole pubbliche 150 mila bambi­ni rifugiati in età scolare, a fron­te di altrettanti coetanei libanesi attuando i doppi turni: la mattina i libanesi e il pomeriggio i siriani, con insegnanti che faticano enor­memente a sostenere più corsi. Al­tri 150 mila minori restano affidati alle ong che non riescono a garan­tire regolarità al percorso scolasti­co. Il flusso di rifugiati, lo scorso anno, è stato di 100 mila arrivi al mese e nelle prime settimane del 2017 si contano già 400 mila ra­gazzi privi di istruzione. Da non sottovalutare sono le nascite nei campi profughi. Solo in Libano, nel 2016, sono nati 36-38 mila bambini, gran parte dei quali non risultano iscritti all’anagrafe e quindi ufficalmente non esisto­no. Si stima poi che tra i 6 milioni di rifugiati nell’area mediorien­tale i neonati dell’ultimo anno si aggirino sui 160-180 mila. Cristi­na Carrandi, protection manager dell’Oxfam, sostiene che si sta for­mando «una generazione di senza terra, senza diritti, senza futuro». Ciò che dà speranza e fiducia è l’a­more con cui questi piccoli sono accolti anche nella miseria di un campo profughi.

 

Noi, desaparecidos, vittime del terrorismo di Stato

di Alberto Barlocci

Tra gli anni ’60 e ’80 l’America La­tina ha vissuto un triste capitolo di dittature militari, instauratesi per far fronte ad alcuni gruppi sovver­sivi. Ma, di fatto, il loro potere ha schiacciato qualsiasi forma di op­posizione: avversari politici, sinda­calisti, attivisti sociali, intellettuali o semplici cittadini innocenti il cui nome è finito nell’agenda sbaglia­ta. L’aver spacciato la contesta­zione come guerra ha consentito la violazione di qualsiasi forma di diritto e ha giustificato arresti, sequestri, torture e la sparizione sistematica di migliaia di uomini, donne, a volte incinte, e anziani. Anche i bambini appaiono in que­sta lista. In Argentina 500 di loro si trasformarono in “bottino” e ven­nero affidati a famiglie di militari o abbandonati come orfani in vari istituti e non pochi vennero venduti anche all’estero.

A questi si aggiun­gono gli oltre 300 figli di guerriglie­re a cui fu risparmiata la vita perché incinte. Vennero fatte partorire in cliniche clandestine e poi freddate o assassinate con delle iniezioni e lanciate in mare dagli aerei. I pic­coli vennero assegnati a famiglie secondo una lista d’attesa predi­sposta dal governo, ma di loro non si è più saputo nulla. L’associazione Abuelas (nonne) segue da tempo le tracce di tutti questi desaparecidos. Ne ha ritrovati 121 e ne ha ricostru­ito l’identità, senza tacere sulla rete di complicità, sospetti e menzogne che ne ha permesso la sparizione. Molti dei genitori hanno preferito ignorare la provenienza dei figli, ma tanti ne erano ignari. L’ultimo nipote recuperato è Maximiliano, figlio di due militanti, Ani e Domin­go Menna. Ani era incinta di 8 mesi quando venne sequestrata col mari­to e sparirono nel nulla. Strappano lacrime le storie di questi nipoti re­cuperati. E quando possono ritro­varsi con i familiari, strappano an­che un sorriso, nella speranza che casi del genere non riaccadano.

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