Figli dei femminicidi

Di fronte a una ferita terribile, cosa fare, quali parole usare con i bambini?

La sensibilità per i ripetuti casi di femminicidio è molto cresciuta negli ultimi anni, di pari passo con l’indignazione. Tanti gli articoli, le analisi, le richieste di “fare qualcosa” per arginare un fenomeno così devastante. Meno si è parlato, forse, di cosa fare, di come comportarsi con i figli delle madri uccise per femminicidio. Ma qualsiasi cosa facciamo è insufficiente di fronte al dramma e alla sofferenza in atto. Di fronte ad atti bestiali e disumani non si hanno parole, si rimane disorientati provando vergogna per la stirpe umana. E proprio per questo è necessario rispondere.

Anche le più grandi aberrazioni umane necessitano di parole. Perché, se non avessimo parole, la disperazione invaderebbe il mondo, col suo veleno di tristezza e angoscia. E a maggior ragione occorrono parole quando ci sono minori e figli che soffrono. Per cui proviamo a dire qualcosa.

Prima di tutto, ogni situazione è unica e circoscritta. Occorre considerare l’età dei figli, le circostanze che hanno determinato il delitto, le innumerevoli variabili in gioco che solo chi vive conosce. Di sicuro però possiamo immaginare due grandi sofferenze che sovrastano i figli, quasi insopportabili per qualsiasi essere umano: prima di tutto il dramma della mamma che non c’è più. È una ferita atroce, che sanguina nel cuore, che manifesta la paura e l’angoscia per l’assenza improvvisa di chi si prendeva cura di loro, costituendo spesso l’unica sicurezza. La seconda sofferenza è il tipo di morte, atroce: una morte inumana, ad opera di un padre che magari aveva usato con loro dolcezza e cura, o di un fidanzato o di un padre assente, insomma di un adulto. È una ferita che manifesta sconcerto e contraddizione nelle capacità dell’uomo, inducendo insicurezza e sfiducia.

Oltre a tutti gli aiuti concreti che devono essere utilizzati, di fronte a queste grandi ferite sono sostanzialmente due gli atteggiamenti che possono essere messi in campo: l’ascolto e la parola. Occorre essere sempre disponibili ad ascoltare i silenzi, le lacrime, le arrabbiature, le parole, che i figli, a seconda dell’età, potrebbero manifestare. Deve essere un ascolto pieno, profondo, che aiuti i figli a dire, ad esprimere la ferita. Anche la parola, poi, se ben utilizzata, può fare moltissimo. Certo, nessuna parola potrà restituire ai figli la loro madre. Occorre però ricordare che la parola nutre, dà senso, sostiene, può rendere umane azioni disumane, nel senso che può far luce sulla cattiveria dell’uomo, ma anche sulla capacità di andare oltre, di trasformare l’angoscia in dolore sopportato. Può attivare le migliori risorse insite nei figli anche di fronte al dramma di un evento come questo. Ma come formulare queste parole? Cosa dire? La parola è sempre una risposta al dolore e deve tener conto della persona a cui si rivolge. Dovrebbe avere sempre lo stesso contenuto, anche se espresso in modalità differenti a seconda che si parli a un bambino o a un ragazzo. Le parole dovrebbero contenere tre concetti: empatia, verità, sostegno. Empatia significa essere vicino all’ansia, alla ferita, dimostrando che si è lì con loro, con la loro sofferenza. Verità nel descrivere quanto è successo con parole opportune, rispettose dell’età dei figli; non sempre occorre dire subito tutto, ma importante è che quello che si dice sia vero. Sostegno, perché bisogna incoraggiare a  gestire, ad andare avanti, stando attenti a togliere ogni senso di colpa nei figli, sostenendo sempre il loro futuro. Questi concetti possono essere espressi utilizzando poche parole e, a seconda dell’età, in modo semplice e chiaro.

Fino ai 6 anni

Utilizzare poche parole. Tener conto che il bambino non è in grado di considerare i vari aspetti della realtà. È bene non dire tutto, ma è importante dire la verità possibile, senza mai chiedere successivamente se ha capito. Si può dire: «Vedi, di solito si muore da grandi, qualche volta capita che si muoia da giovani. La mamma è morta. Vuoi salutarla? Se vuoi, possiamo dire una preghiera». È bene non dire subito come è morta. Il bambino non è ancora in grado di elaborare  e di comprendere tutte le variabili. È bene invece invitarlo al funerale. Si può poi aggiungere: «Sono sicuro che andrà tutto bene e che tu saprai cosa fare. Sappi che ti vogliamo tutti bene». Tutto questo aiuterà il bambino a umanizzare il dramma. È bene poi ogni giorno mantenere vivo il ricordo della mamma, dicendo una preghiera. Le reazioni dei bambini saranno diverse: chi piangerà, chi non dirà niente, chi vorrà giocare. Ognuno ha il suo modo di elaborare il dramma. L’importante è che l’adulto sia sempre disponibile all’ascolto e a rispondere a tutte le domande che il bambino vorrà fare.

Dai 7 anni in poi

Si possono dire tutte le cose dette in precedenza, aumentando le spiegazioni e dicendo  la verità sulle cause della tragedia. Si può dire, per esempio: «A volte i grandi fanno cose bruttissime. La mamma è stata uccisa da… e questo è atroce, ma sono sicuro che comunque tu saprai cavartela. Sappi che tutti noi ti vogliamo un sacco di bene». Anche in questo caso le reazioni possono essere diverse: rabbia, odio, angoscia, le più varie. L’importante è che l’adulto ascolti, sostenga, abbracci, pianga insieme al bambino o al ragazzo. Quando i figli sono più grandi, può essere d’aiuto anche uno psicologo che permetta l’elaborazione  della ferita e sostenga fin quando è necessario. A questo proposito permettetemi, da psicologo infantile, una critica ferma e decisa contro le trasmissioni televisive che ripetutamente indagano sui femminicidi spettacolarizzando il dramma e infondendo odio e rassegnazione. Tutto questo non fa altro che aumentare sofferenza e disperazione. Sarebbe importante usare maggior cautela e professionalità, tenendo presente che chi è coinvolto ha solo bisogno di conforto, sostegno e condivisione.

Un ultimo pensiero va anche a un’altra vittima. Vittima della sua immaturità e fragilità, dei suoi istinti ed emozioni più deleteri: l’assassino. Oltre a condannare con tutte le forze l’azione, in modo fermo e deciso, oltre a sostenere soprattutto i familiari della vittima, come persone civili ricordiamo di aiutare l’assassino, non solo mediante una pena giusta, ma anche con un percorso di recupero idoneo e umano.

Insomma, di fronte alla violenza e alla sofferenza, la vera risposta è l’amore. Un amore intelligente, fatto di parole, di ascolto, di senso. Un amore più forte di tutto il male che l’uomo può fare.

Figli di padri violenti

I bambini ritengono che i genitori siano l’assoluto, Dio in terra. Ecco perché bambini figli di genitori violenti, rischiano fortemente di diventare a loro volta violenti. La violenza è una risposta sbagliata di fronte alle frustrazioni, al diniego e il bambino, almeno fino a 7 anni, fa molta fatica a discernere, cioè a pensare che si possa utilizzare un sistema diverso di risposta se nessuno glielo testimonia in maniera costante. Ecco perché l’educazione, durante l’infanzia, alla stima di sé e degli altri, alla tolleranza, dovrebbe essere prioritaria in un Paese civile. La prima testimonianza dei genitori dovrebbe essere quella di aiutare il bambino a scoprire le risorse che sono dentro di lui, invitandolo a riflettere, a chiedere scusa e a fidarsi delle sue capacità, mediante l’utilizzo del “Tu”. Per esempio dicendo: «Sono sicuro che Tu saprai fare bene». Questo Tu è il capolavoro educativo, è il rispetto più grande che i genitori e gli adulti possono mettere in campo con i figli.

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