Far grande Dio

Nelle parole del canto mariano per eccellenza, l’umiltà di Maria fa risplendere la grandezza del Signore. Piero Coda nelle pagine di Magnificat, edito da Città Nuova, ne spiega il fascino e la bellezza
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L’occasione che ha risvegliato la spinta inte­riore a scrivere queste pagine m’è venuta da Roset­ta Stella. Si parlava del Magnificat come di una collana che inanella perle preziose, di vari e lucenti colori, e in ognuna delle quali si rispecchia la Luce che irradia dall’anima di Maria.

«Quale versetto tu sceglieresti?» – mi ha do­mandato.

Non ci son stati dubbi: ho scelto subito il pri­mo, d’istinto. E non per presunzione. Ma per il fascino ch’esso da sempre esercita su me. Il fascino d’un mistero che raccoglie in uno il chi è di Maria e proprio così lo può poi dispiegare come un fiore profumato che dischiude la sua co­rolla ai primi raggi del sole.

Tutto nasce da quel verbo che Maria sceglie per intonare il suo canto: «l’anima mia megalúnei, magnificat, fa grande il Signore». È la parola che dà il tono e il titolo a tutto il canto.

Ciò che ti avvince, in esso, è l’umiltà di Maria, il suo annientarsi di fronte a Dio, per cantare la lo­de della Sua onnipotenza e misericordia, che si svelano in ciò che – attraverso lei – sta accadendo nella storia. In Maria vive già Gesù. Un’altra vita. “La” Vita.

Che cos’è, per una donna, sperimentare d’es­sere abitata da un’altra vita, darle carne e sangue, attendendo il momento in cui essa – come un mi­racolo – le sarà posta di fronte?

Non ho esperienza di questa percezione, la posso solo immaginare. Sono uomo e sono prete. La posso ricevere, per empatia, da una donna con la quale non ho però un rapporto sponsale.

Non ho neppure l’esperienza di quella pater­nità di sangue che, vissuta nella reciprocità con una donna, può accogliere anche in sé, almeno in­direttamente, il sentimento peculiare e misterioso della maternità.

Ma ricordo quant’impressione mi fece quan­do mia sorella, poco dopo essere divenuta madre, offrì alle mie braccia la sua bimba, Alibet. Intuii che mi faceva partecipe – non so quanto cosciente­mente, non gliel’ho mai chiesto, ma certo con squisita sensibilità – dell’esperienza grande e bella della sua maternità.

E ricordo anche quando, giovane prete duran­te un campeggio d’adolescenti, nella penombra della rustica cappella di montagna dopo la pre­ghiera vespertina, venne da me Romana. Mi disse delle sue angustie. E poi, abbracciandomi, mi con­fidò che ero per lei padre.

Son state esperienze originanti. Alle quali tan­te altre, sempre diverse, sono poi seguite. Mi han­no fatto gustare, per un attimo, la bellezza vertiginosa e intima della maternità che non potrò mai fare, ma insieme presentire che essa – nella co­munione dei cuori – può diventare in certo modo anche mia.

da Piero Coda, Magnificat, Città Nuova , 2013

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