Europa e declino dello Stato nazione

La forza del modello europeo è la costruzione di una civitas più umana. Continuano gli interventi nell'ambito di un dibattito sul ruolo dell'Unione europea, in vista delle elezioni di domenica 26 maggio.

Leggendo alcuni dei principali discorsi dei padri fondatori del processo d’integrazione europea – e mi riferisco in modo particolare a quelli di Alcide De Gasperi, di Robert Schuman, di Konrad Adenuer, ma anche di Luigi Sturzo e di Luigi Einaudi (a tal proposito rinvio al recente volume: Europa. Il futuro di una tradizione, LEV, 2019) -, potremmo cogliere una dimensione europeista, tutta proiettata nel futuro che, mi auguro, possa ricevere ulteriore slancio nelle prossime elezioni europee del 26 maggio.

Uno dei passaggi fondamentali del processo d’integrazione europea e che ritengo possa ancora esprimere uno dei tratti più originali di tale esperimento politico, economico e culturale, è presente nel discorso che il cancelliere tedesco Adenauer tenne il 24 marzo 1946 all’Università di Colonia: «Io sono tedesco e rimango tedesco, ma sono sempre stato europeo. […]. Mi sono impegnato nel corso degli anni Venti a favore di una integrazione reciproca delle economie francese, belga e tedesca allo scopo di assicurare una pace duratura poiché interessi economici paralleli e sincronizzati costituiscono e costituiranno sempre il fondamento più sano e duraturo per le buone relazioni politiche tra i popoli».

L’espressione “interessi economici paralleli e sincronizzati” traccia il perimetro concettuale del modello europeo pensato dai padri fondatori e impossibile da comprendere qualora rimanessimo ancorati alle categorie interpretative tradizionali; quelle che si sono formate in un mondo dominato dalle nozioni di Stato nazionale, di sovranità nazionale, di guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali e di ragion di Stato, quale pretesto per l’uso discrezionale della forza e l’esercizio arbitrario dell’azione politica. Necessitiamo di nuove “categorie interpretative” che consentano di comprendere il modello europeo, affinché esso possa evolvere e dispiegare tutto il suo potenziale in termini di cultura umanistica e di capacità di “buon governo”.

Secondo l’ispirazione cristiana e liberale dei padri, in una parola: “popolare”, il processo d’integrazione è visto come una tappa di un percorso verso un “nuovo modello di statualità”. Sappiamo che lo “Stato nazione” non è stata l’unica forma di organizzazione dell’ordine politico, si è affermato nella storia come risposta al “problema teologico-politico”, dovuto alla coesistenza di due pretese universalistiche, Chiesa e Impero. Ebbene, la soluzione a quel problema fu l’emergere della “Stato-nazione”.

L’aspetto più interessante dell’esperimento europeo è la consapevolezza che ogni soluzione istituzionale non esprime un punto d’arrivo, ma solo la tappa di un processo che prelude alla possibilità che, per la soluzione di nuovi problemi, si individuino nuovi strumenti; è questa una possibile implementazione di quella formidabile locuzione con la quale papa Benedetto XVI, in Caritas in veritate, 7, definisce la politica: “via istituzionale della carità”.

La visione europeista dei padri considera conclusa l’epoca degli Stati nazionali a sovranità assoluta, l’epoca del nazionalismo e del militarismo e vede nel processo d’integrazione i tratti di un nuovo ordine politico; è evidente che, in tempi di neo-sovranismo, come quelli in cui disgraziatamente viviamo, una simile posizione può apparire eccentrica.

Sulla scorta di quanto appena scritto, possiamo individuare come alternativa allo Stato-nazione il modello di “cooperazione strutturata”, sperimentato sin dalle origini del processo, a cominciare dalla fondazione della CECA, e razionalizzato cinquant’anni dopo con il Trattato di Lisbona. Un metodo che si presenta sotto forma dell’approccio empirico, distante dagli apparati ideologici dominanti e non sempre colto in sede teorica dalla pubblicistica prevalente. È stata proprio questa forma di “cooperazione strutturata” ad aver consentito la progressiva destrutturazione della nozione di sovranità, la sua disarticolazione e il conseguente graduale trasferimento di poteri dal livello nazionale verso un processo di unificazione.

La particolarità di tale approccio risiederebbe nella decisione dei singoli Stati di trasferire funzioni di sovranità non ad uno Stato consolidato, bensì a favore di un processo, evidenziando, in tal modo, un “paradigma” del “processo”, inteso come “statualità in via di formazione”. Sebbene l’obiettivo di lungo periodo rimanga la costituzione di una federazione, affinché si possa progredire in tale direzione, si riconosce il ruolo fondamentale degli Stati membri, valorizzando i principi confederali. Il superamento degli ostacoli contingenti avviene mediante la ricerca delle soluzioni ad hoc di carattere istituzionale, corrispondenti al problema emergente.

Al centro di tale processo abbiamo i problemi dell’unione monetaria e dell’unione economica. L’euro esprime un sistema di regole teso alla garanzia del buon governo della moneta, limitando la discrezionalità dell’autorità politica, sia a livello di Stati membri sia a livello comunitario. La nostra tesi prende spunto dalla lezione di Luigi Einaudi, il quale, riflettendo dal suo esilio ginevrino sul futuro dell’Europa e dell’ordine internazionale, individuava un nesso diretto tra stabilità monetaria, struttura federale dello Stato e superamento della lotta di classe, l’esatto contrario della situazione in cui a dominare la scena siano l’inflazione, lo Stato accentrato e i gravi squilibri sociali.

È questo uno dei punti cardine della teoria dell’Economia sociale di mercato, introdotta in Germania proprio dal cancelliere tedesco e perorata in Italia, senza troppo successo, da Luigi Einaudi e Luigi Sturzo. Ecco come Adenauer sintetizza la dinamica economica all’interno di un ordinamento ispirato all’Economia sociale di mercato: «Questa politica economica, grazie a una giudiziosa combinazione di denaro e credito, scambio e dogana, tasse, investimenti e politica sociale, e ancora ad altri provvedimenti, consente all’economia di raggiungere il suo fine ultimo che è quello della prosperità e del benessere di tutto il popolo, proteggendolo contro il bisogno. Questa garanzia dev’essere naturalmente estesa in misura appropriata a quella parte della popolazione che soffre la miseria».

In definitiva, credo si possa affermare che la forza del modello europeo, che attende di essere confermata nelle prossime elezioni, andrebbe ricercata nella sua capacità di cogliere il processo storico che si starebbe affermando: un processo che vede il declino dello Stato-nazione, nonostante le resistenze illiberali di sovranisti di ogni tipo e ideale e la possibilità che l’implementazione del principio di sussidiarietà verticale ed orizzontale ci consegni un ordine politico i cui margini delle libertà delle persone siano più ampi, in quanto meno dipendenti dall’arbitrio del “Principe” e, per citare Wilhelm Röpke, la civitas sia più umana.

 

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