Essere Amleto

È l’anno di Amleto. Ne sono annunciati ben cinque. Nel frattempo, in estate, abbiamo avuto l’assaggio di due diversi allestimenti. Il capolavoro di dodici ore di Antonio Latella Progetto non essere-Hamlet’s portraits (al Festival delle Colline Torinesi) si candida tra le versioni più geniali. Da ascrivere nella storia del teatro. Latella ne fa un compendio teatrale denso di temi, immagini, simboli, citazioni. Egli tesse il filo rosso di un viaggio umano e artistico in compagnia di tutti i personaggi di Amleto. In undici quadri ciascuno vive di vita propria secondo un articolato sviluppo drammaturgico. Tutti cercano il senso della vita nella domanda di sempre: essere o non essere? E vivono con la presenza della morte richiamata dagli scheletri e dai teschi coi quali si dialoga o si irride. Come nella divertente scena dei due becchini-imbonitori intenti a svenderceli spacciandoli per cervelli illustri, per farne poi un fagotto con la bandiera rossa della disfatta delle ideologie. Tra le moltissime sequenze simboliche c’è quella di Ofelia. In barattoli d’acqua affogherà delle bambole dando loro il nome di donne celebri segnate dal suo stesso destino di suicida. Amleto lo incontreremo nella scena del duello. Egli combatterà di volta in volta con tutti i personaggi schierati poi a declamare Hamletmaschine, l’opera in cui Heiner Müller lo descrive in un farneticante soliloquio dove, moderno intellettuale, abbandona ogni slancio utopico. Unica presenza costante in ciascuno dei visionari ritratti dei protagonisti è Orazio. Lo ritroviamo come amico accanto ad Amleto che rivive, alla fine, l’intero testo con la disarmante semplicità e naturalezza di un emozionante Marco Foschi. E sono tutti magnifici gli oltre quindici attori impegnati in una creativa e fisica drammaturgia di gruppo. Dell’Amleto di Alessandro Preziosi vorremmo riparlarne meglio quando approderà al chiuso, e con un nuovo cast. Perché quello che ha debuttato all’aperto a Taormina Arte non ci ha convinti. Soprattutto per la regia confusa di Armando Pugliese. Bene la scelta della traduzione veloce e asciutta di Eugenio Montale, ma la soppressione di un personaggio non secondario come Fortebraccio, con gli echi di guerra a lui legati, non è giustificata. La messinscena, inoltre, soffre di un’ambientazione ristretta. Su un lettino d’ospedale compare subito Amleto in preda alla visione dello spettro del padre. Che l’intenzione del regista fosse quella di conferire una dimensione da incubo, con i personaggi della corte danese partoriti dalla mente di Amleto, non appare chiaro. La presenza, poi, di due autorevoli attori, Franco Branciaroli e Silvio Orlando, di stile recitativo così diverso, disorienta. Il primo, nel ruolo di Claudio, vira su toni beffardi e flemmatici; il secondo sembra una macchietta di Polonio con i suoi compiaciuti giochi di parole. Carla Cassola, inoltre, pare inconsistente nel ruolo di madre e regina. Espressività che non riescono ad amalgamarsi al servizio del testo. In questo contesto il pur bravissimo Preziosi – credibile per slancio e intensità – che propende per un Amleto più cinico che dubbioso, non si impone con la sua irruenza giovanile. All’insieme sembra mancare una lettura critica. E il peso delle parole si disperde.

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