Donne tra coraggio e oltraggi

Un colpo di fucile. Sparato non si sa da chi, non si sa perché. Così abbiamo appreso la drammatica notizia dell’uccisione di Annalena Tonelli, la volontaria italiana che aveva trascorso più di trent’anni in Africa. A spendere la propria vita per gli altri: ammalati di tubercolosi, di Aids, bambini sordi e ciechi, quelli che nessuno pensava di poter guarire. Lei se ne prendeva cura, con o senza medicine. Ricca sempre di una tenacia iscalfibile, di una forza tanto più grande quanto più debole sembrava essere la sua persona. Donna minuta che ricorda anche nel fisico, oltre che nella determinazione, la novella beata, Madre Teresa di Calcutta. Madre Teresa dell’Africa infatti la chiamavano in tanti. È morta nella “sua” Borama, nel Somaliland, un ex protettorato britannico che dal 1991 ha dichiarato la propria indipendenza, (tuttora non riconosciuta dalla comunità internazionale) dalla Somalia. Era lì che viveva dal 1996, dopo essere stata in Kenya e a Merca, a sud di Mogadiscio. Vi aveva trovato un vecchio ospedale con una trentina di posti. Vi lascia il Tb Centre: trecento posti letto, un efficiente laboratorio di analisi, il miglior ospedale per la cura della tubercolosi in Somalia, paese con la più alta percentuale mondiale della malattia. Il suo metodo contro la tbc è oggi usato in tutto il mondo niente poco di meno che dall’Organizzazione mondiale della sanità. Aveva scelto di vivere “a servizio, senza un nome, senza la sicurezza di un ordine religioso, senza appartenere a nessuna organizzazione””, come lei stessa raccontava, ma la sua morte è stata una perdita che ha toccato profondamente organismi importanti dall’Acnur alla Caritas che con lei avevano lavorato nel corso di questi lunghi anni africani. “Prima ancora dell’impegno operativo – afferma don Vittorio Nozza, direttore di Caritas Italia – ci univa il desiderio di batterci per la sopravvivenza e l’affermazione dei diritti fondamentali di popolazioni stremate da anni di violenze insensate. Annalena non le ha abbandonate, servendole con lucidità e dedizione, in nome di una fedeltà mai esibita, ma ferma e autentica, al messaggio del Vangelo. Ha pagato con la vita la sua incorruttibilità, lo stile di apertura che ne ha sempre ispirato le azioni, la volontà di dialogo, nel rispetto delle tradizioni culturali e religiose delle persone curate e incontrate”. E Ruud Lubbers, alto commissario delle Nazioni unite per i rifugiati, che nel giugno scorso le aveva conferito il premio Nansen, ricorda l’orgoglio di quella scelta grazie alla quale era stato possibile “onorare lo straordinario lavoro che questa donna ha svolto negli ultimi trent’anni a favore dei più poveri tra i poveri, tra cui molti rifugiati, dimostrando che singoli individui possono ancora fare la differenza”. La morte di Annalena Tonelli ha ricordato quella di un’altra volontaria italiana, Graziella Fumagalli, avvenuta appena otto anni fa a Mogadiscio in analoghe circostanze. Nel dramma, un vanto per il nostro paese come ha sottolineato lo stesso presidente della Camera Pier Ferdinando Casini in un messaggio inviato alla famiglia Tonelli. “Dei nostri volontari – scrive – si parla troppo raramente. Dobbiamo tenere viva la consapevolezza che nel sacrificio di quelle persone sta una delle più grandi risorse dell’Italia”. Le donne dei diritti e i diritti delle donne Inevitabile andare con la mente a tutte quelle donne che nel mondo si sono battute e si battono stando in prima linea sul fronte dei diritti umani negati che ancora oggi hanno come soggetto il genere femminile della popolazione. Perché nessuno può negare che tra le fasce più colpite da soprusi, ingiustizie e maltrattamenti d’ogni specie, donne e bambini occupano una grande fetta. Ultima, in ordine di tempo, ad essere riconosciuta col Nobel della pace, l’azione dell’iraniana Shirin Ebadi che porta ad undici il numero delle donne insignite di tale premio. Fra esse la stessa Madre Teresa, la guatemalteca Rigoberta Menchù, la dissidente birmana Aung San Su Kyi, l’attivista per la campagna contro le mine antiuomo Jody Williams, per citare le più recenti. Un’opera spesso coraggiosa, resa tanto più difficile quanto più è radicata nella popolazione maschile l’idea, consapevole o meno, che comunque sono gli uomini a dover avere in mano il timone della storia e che essere donna sia una sorta di handicap congenito che impedisce l’accesso alla stanza dei bottoni. Fattore questo che non ha impedito a tante di abbattere certe “barriere mentali” e di raggiungere traguardi di grande prestigio. Se certe donne sono riuscite, l’altra faccia della medaglia però è il primato negativo dei diritti lesi di tante altre. Da quelle perseguitate perché attive in campo politico, sociale e civile, alle vittime delle violenze più abiette: mutilazioni genitali, stupri perché mogli del nemico. Donne mutilate, picchiate a morte, vendute come schiave per prostituirsi… Abbiamo vissuto di recente la vicenda, che ha assunto risonanza mondiale, di Amina, la donna nigeriana condannata alla lapidazione perché accusata di adulterio. E solo l’anno precedente, identica esperienza per un’altra nigeriana, Safiya, “colpevole” di aver dato la vita a una bambina frutto di una violenza “diventata” adulterio. La mobilitazione internazionale le ha salvate dalla morte decretata in nome della sharia, la legge islamica introdotta nel loro paese a partire dal 2000, che prevede tra l’altro la pena capitale in caso di relazione extraconiugale. Punte estreme di tutta una concezione della donna che noi occidentali non comprendiamo. Anche se, come annota Raffaele Masto, che di Safiya ha raccolto la storia in un libro-autobiografia Io, Safiya (Sperling & Kupfer editori): “Gli avvenimenti vanno sempre contestualizzati, cioè analizzati e confrontati con la società nella quale si svolgono”. Secondo valutazioni di esperti delle Nazioni unite, non esiste un paese al mondo dove le donne non siano in qualche modo discriminate, svantaggiate come sono nella possibilità di accedere alle cariche pubbliche, nel trattamento nei processi civili e penali. Ed anche, in maniera a volte più subdola, nelle relazioni e gerarchie in ogni settore sociale a partire da quello del lavoro e dell’istruzione. In questo senso una nota positiva arriva dal Marocco dove il re Mohammed VI ha annunciato una storica riforma del diritto di famiglia nella direzione della parità fra i sessi. Limiti alla poligamia e al ripudio della moglie, uguale “peso” dei due coniugi, sviluppo della famiglia sotto la protezione di “entrambi gli sposi” gli elementi di novità annunciati all’inaugurazione dei lavori parlamentari d’autunno. Il cammino da fare è ancora tanto, in tutto il mondo come anche in tante nostre famiglie e posti di lavoro. Ma certo la coscienza che uomo e donna, nella loro profonda naturale diversità, abbiano pari dignità, uguali diritti e medesimi doveri, va facendosi strada. Anche grazie alle tante donne che del genio femminile sono state interpreti. Siamo ben lontani dai tempi in cui il “cronista” annotava “senza contare le donne e i bambini” per riferire sul numero dei presenti alla moltiplicazione dei pani e dei pesci compiuta da Gesù Cristo. Quello stesso Gesù che già duemila anni fa aveva messo la donna al suo posto. Considerandone quella dignità che più di recente (nel 1988 in particolare con la Mulieris dignitatem, ma durante tutto il suo pontificato), Giovanni Paolo II ha spesso sottolineato come un segno dei tempi, indicando nella vocazione all’amore, tipica espressione del genio femminile, la sola forza che può cambiare il mondo. È partendo da lì che certe donne sono diventate protagoniste della storia. I MALATI, UN AMORE PER LA VITA Da una testimonianza di Annalena Tonelli “Lasciai l’Italia dopo sei anni di servizio ai poveri di uno dei bassifondi della mia città natale.Trentatré anni dopo grido il Vangelo con la mia sola vita e brucio dal desiderio di continuare a gridarlo così, fino alla fine.Questa la mia motivazione di fondo, insieme a una passione invincibile per l’uomo ferito e diminuito senza averlo meritato al di là della razza, della cultura e della fede. Il mio primo amore furono malati di tubercolosi, la gente più abbandonata, più rifiutata di quel mondo. Ero a Wajir, nel cuore del deserto del nord-est del Kenya, quando conobbi i primi malati e mi innamorai di loro, e fu amore per la vita. Non sapevo nulla di medicina.Tutto mi era contro. Ero giovane e dunque non degna né di ascolto né di rispetto. Ero bianca e dunque disprezzata. Ero cristiana e dunque rifiutata, temuta. Trent’anni dopo (“) chi mi conosce bene dice che io sono somala come loro e sono madre autentica di tutti quelli che ho salvato, guarito, aiutato. È una vita che combatto e mi struggo, come diceva Gandhi, mio grande maestro assieme a Vinoba, dopo Gesù Cristo. La mia vita ha conosciuto tanti pericoli, ho rischiato la morte tante volte. Sono stata per anni nel mezzo della guerra. Ho sperimentato nella carne dei miei, di quelli che amavo, la cattiveria dell’uomo, la sia crudeltà, la sua iniquità. E ne sono uscita con una convinzione incrollabile che ciò che conta è solo amare”.

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