Domenica al Pronto Soccorso

Quella scala, in quel modo lì non dovrei metterla. Tra la porta e l’armadio, non c’è spazio sufficiente per aprirla in modo adeguato. Ma la fretta, e ancor più la presunzione di avere ancora l’agilità e l’energia dei vent’anni, sono cattive consigliere e… mi ritrovo per terra, battendo pesantemente la schiena contro la scala stessa. Non è niente, dico a mia moglie accorsa sentendo il tonfo. Provo ad alzarmi per non spaventarla. Ci riesco, ma il dolore alla spalla e alle costole non cessa. Insiste per accompagnarmi al Pronto soccorso. Se non è niente, si vedrà: tanto meglio, mi dice con il suo consueto senso pratico. È una domenica d’inizio dell’estate scorsa. Il cielo è terso, di un azzurro intenso. Dal balcone di casa si scorge il mare: una brezza leggera increspa appena le onde, di un verde smeraldo. Attendevamo degli amici per quella sera. Invece… Il medico di turno, al di là del vetro, nota il mio arrivo tra le diverse persone già in lista d’attesa. Mi fa entrare e gli racconto l’accaduto. Accanto, un infermiere sembra ascoltare con attenzione. Dopo nemmeno mezz’ora, mi chiamano in radiologia. Riconosco l’infermiere: è lui l’esperto tecnico che esegue gli esami, procedendo con precisione millimetrica sulla parte traumatizzata. In attesa del responso radiografico, vengo fatto accomodare su una delle sedie poste nell’ampio corridoio sul quale si affacciano le varie salette mediche. Non sono solo in questo corridoio. Un giovane papà, passeggiando avanti e indietro, tiene in braccio il proprio bambino di pochi mesi. Incrociando il mio sguardo, si accorge della mia attenzione e mi domanda sommessamente: Dorme? . Rispondo: Sì. Affiora un sorriso dal suo volto, come rinfrancato dalla mia risposta e dal mio interessamento. Nel frattempo, in sala radiologia è entrato un altro giovane fortemente dolorante a un piede. Più avanti, scorgo un anziano signore che non parla italiano, seduto su un lettino, con accanto la moglie che lo conforta, e un’infermiera, che con particolare dedizione riesce a farsi intendere. Sopraggiunge una giovane donna, anche lei in attesa di fare un esame radiografico. Pur non parlandoci, sembriamo quasi confortarci e sostenerci reciprocamente. Arrivano, direttamente dall’accesso delle ambulanze, due lettighieri che spingono un lettino con sopra un vecchietto molto magro. Si fa attorno il silenzio, palpabile in tutto il corridoio. Accedono direttamente all’ascensore che porta ai reparti. Intanto, da radiologia esce l’uomo che si è fatto male al piede: si lamenta vistosamente. La giovane donna è chiamata a fare la lastra. L’uomo è sdraiato sul lettino, e non cessa di lamentarsi. Con l’intento di distrarlo per alleviargli in qualche modo il dolere, mi viene spontaneo domandargli cosa gli sia successo; sembra contento di questa mia attenzione, peraltro discreta, e mi racconta per filo e per segno la dinamica dell’accaduto. Nel montare la cameretta per il proprio bambino (ne ha già due), improvvisamente un pesante pannello gli è cascato sul piede. Gli dico che queste cose succedono, e accenno al mio incidente: supposta frattura delle costole. Come a confortarmi, subito mi dice che lui le costole se le è già rotte tre volte, l’ultima in un brut- to incidente stradale. Ora il dolore predomina su tutto. Sopraggiunge la giovane infermiera che ha accompagnato in ascensore il vecchietto. Spingendo il lettino per sistemarlo in una porzione più libera del corridoio, chiede al giovane: Come va?. Bene, le risponde. Sento che le sue non sono parole di pura cortesia, ma rivelano qualcosa che sta sperimentando, al di là del dolore fisico. E quando, fatte le cure del caso, viene dimesso, ci stringiamo la mano come vecchie conoscenze. Grazie, mi dice. Quel momento di dolore condiviso ci ha rivelato l’uno all’altro. Entrano nella sala d’aspetto una mamma, un papà e una bambina di quattro-cinque anni. Mamma e bambina vengono a sedersi sulle sedie libere accanto alla mia. Il papà, probabilmente, cerca lo sguardo di un medico. La bambina sussurra qualcosa all’orecchio della mamma. Hai freddo?, le domanda. La piccola annuisce. Io ho tra le mani un golfino di cotone e lo porgo alla signora. Apprezzando il gesto, la donna copre subito le spalle della figlia, che per un attimo sembra raggomitolarsi dentro l’indumento. Poi, d’improvviso, come in un impeto di orgoglio – e chi conosce le bambine di questa età sa come sono -, se lo toglie. La mamma mi rende il golfino con un sorriso di ringraziamento. Arriva una dottoressa con le mie lastre. Nulla di grave, mi dice congedandomi, ed invitandomi per un controllo il giorno successivo. Mai mi è parsa così bella la strada del ritorno a casa, a fianco a mia moglie. Non solo per l’esito degli esami radiologici. Tanti volti oggi ci sono diventati familiari, come non avremmo potuto supporre. Dolori condivisi, uno spaccato di umanità senza fronzoli. Agostino De Berti – Genova

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