Il dolore infinito di Ayotzinapa

Sul caso dei 43 studenti scomparsi nel 2014 si abbattono le accuse dell'Alto Commissariato Onu per i diritti umani, che parla di confessioni estorte con tortura e arresti arbitrari. L'impatto sulle famiglie e sulla società messicana
Protesta delle madri degli studenti scomparsi di Ayotzinapa

Un nuovo scandalo ritorce ancor più il coltello nella piaga della sparizione dei “43 di Ayotzinapa”, gli alunni dell’Istituto magistrale Isidro Burgos scomparsi dal 26 settembre 2014. L’Alto commissariato Onu per i diritti umani afferma in un rapporto pubblicato giovedì di «basarsi su forti elementi» che proverebbero che una parte degli imputati sia stata «arrestata arbitrariamente e torturata per estrarre informazioni o confessioni», tra cui la testimonianza che portò alla prima conclusione del caso: assassinio da parte di narcotrafficanti e incinerazione dei cadaveri in una discarica.

Ritorniamo sui tragici fatti del settembre di tre anni fa. Come tanti altri studenti, quel giorno un nutrito gruppo di alunni del magistrale rurale Isidro Burgos di Ayotzinapa (Stato di Guerrero) stava per arrivare a Iguala per un corteo. Era l’anniversario della storica manifestazione di piazza di Tlatelolco, nel 1968, stroncata nel sangue di 65 studenti uccisi dalle forze dell’ordine della dittatura. Questa volta si protestava per pratiche di assegnazione di cattedre considerate discriminatorie. I ragazzi di Ayotzinapa avevano “dirottato” tre autobus di linea, una pratica che in Messico è abituale in questi casi, ed è tollerata dalla polizia che, spesso, decide persino di scortare i veicoli per evitare danni maggiori. Ma la polizia locale di Iguala, sede designata del corteo, li bloccò.

Probabilmente fu la fama di scuola “rossa”, rivoluzionaria – nei suoi banchi si sono formati leader sociali ma anche non pochi guerriglieri – a motivare la decisione di non farli passare. Comunque sia, una pessima decisione. La polizia aprì il fuoco contro gli autobus, e gli scontri portarono all’uccisione di quattro studenti. L’episodio ebbe una deriva inattesa nella sparizione di 43 alunni, che inizialmente si pensava fossero stati fermati ma che poi, secondo le indagini ufficiali, si trovò che erano stati assassinati dai narcos Guerreros Unidos, che li avrebbero bruciati e ne avrebbe gettato le ceneri in un fiume vicino (vedi l’articolo di cittanuova.it dell’8.11.2014).

Ma l’esito delle frettolose indagini, oltre ad inorridire per l’efferatezza, aveva fatto storcere il naso agli esperti, locali e internazionali. Impossibile cremare in poco tempo e in quelle condizioni così tanti corpi. Subito i genitori e i compagni dei “43” – un numero subito diventato simbolo della lotta contro l’impunità e la “narcopolitica” –, si riversarono per le strade per esigere giustizia e verità. Prese piede il sospetto di una “vendetta” dell’ex sindaco di Iguala, che non aveva perdonato ai “normalisti” l’aver precedentemente rovinato il comizio nel quale era previsto il lancio della candidatura di sua moglie. Altri parlarono di un intricato incrocio con un regolamento di conti tra bande rivali. Altri ancora, dell’attacco organizzato da militari contro gli studenti sospettati di insurrezione. Guerrero è da sempre focolaio di movimenti ribelli e, come si diceva, il “Normal” di Ayotzinapa non è mai stato del tutto avulso ai conati rivoluzionari. Nel procedere delle indagini, riprese a forza di proteste e di azioni legali militanti, una trentina di persone erano state arrestate.

Ora arriva l’accusa dell’Onu. Il rapporto denominato “Doppia ingiustizia” attesta che gli abusi furono prodotti da «indagini inadeguate e ostruzione della giustizia». Per tutta risposta, il governo federale ha dichiarato per iscritto che tali conclusioni «non apportano alcun elemento nuovo che permetta di avanzare nelle indagini». L’Alto commissariato Onu per i diritti umani ha analizzato le informazioni fornite da 63 di un totale di 129 imputati. Di loro, almeno 34 hanno subito torture, tutte nella fase iniziale delle indagini. L’organismo Onu chiede ora che si apra un’inchiesta, e che si escludano le testimonianze ottenute sotto tortura dal dossier sui “43”. A onor del vero, il rapporto riconosce che nel 2016 la Procura generale della repubblica fece «sforzi genuini per chiarire alcuni di questi abusi», tentativi tuttavia frustrati per via della sostituzione dei funzionari impegnati in questo compito. «Ad oggi, non ci sono state imputazioni né sanzioni in rapporto agli atti di tortura e altre violazioni dei diritti umani», afferma il documento.

Contemporaneamente, in un atto culturale ed artistico, è stato presentato il risultato di uno studio sull’impatto psicosociale dei fatti di Ayotzinapa, realizzato da un gruppo di psicologi, antropologi ed assistenti sociali. «Quest’indagine ci ha permesso di avvicinarci almeno un po’ alla sensazione di vertigine che produce la scomparsa forzata di un figlio», ha spiegato la psicologa Mariana Mora. «L’impressione di stare sull’orlo di un precipizio senza fondo, e di sentirsi nell’impossibilità di fare un passo, è forse un’immagine che assomiglia almeno un po’ allo stato psicologico dei genitori di quei 43 ragazzi», ha continuato.

È scritto nel rapporto: «La sparizione forzata produce un’alterazione nel modo di vivere il tempo, che definiamo “tempo fermo”, poiché i genitori dicono che per loro “ogni giorno è uguale al precedente” fino a che non sapranno qualcosa dei loro figli». Ed ancora: «Mentre la perdita non si può considerare definitiva, a causa della mancanza di prove sul luogo della sepoltura, i familiari non possono elaborare la perdita e non avviene il processo di lutto», e ciò è naturalmente aggravato dalla frustrazione di non conoscere la verità. Il rapporto illustra anche il trauma dei compagni degli studenti scomparsi che sono potuti tornare a casa, oppressi dal senso di colpa per non aver condiviso la sorte dei 43, e le conseguenze nella vita emotiva delle famiglie delle vittime, i cui genitori, involontariamente e inevitabilmente, prestano più attenzione ed energie ai figli assenti che ai presenti.

La psicologa Alejandra Gonzàlez parla pure dell’impatto sulla società messicana intera. «Dall’inizio del governo del presidente Calderon (2006), stiamo vivendo una guerra dichiarata al narcotraffico, e in questo contesto, colpi come questo ci rendono ancor più presenti alla coscienza di ciò che non risana nel tessuto sociale e nella storia recente del nostro Paese». I fatti mostrano la sconfitta dello Stato, troppo spesso colluso col “nemico”. Da cui poi derivano la rassegnazione, la delusione e il giustificato senso di insicurezza che soffre la popolazione.

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