L’ufficio di pastorale sociale della diocesi di Roma promuove una serie di incontri nello storico Rione Monti, una realtà urbana che mantiene una dimensione di paese, con il Colosseo che si scorge da vicino, tra un edificio e l’altro.
Qui in una sala dedicata a Roberto Sardelli, prete tra i baraccati nella città degli anni 60/70, si svolgono le riunioni del percorso per un’ecologia integrale in cui è inserito il 10 aprile l’incontro dal titolo “Artigiani di pace per l’economia disarmata” introdotto da una citazione dal messaggio di papa Francesco del Natale 2023.
Parole nette e inequivocabili sulla guerra definita «viaggio senza meta, sconfitta senza vincitori, follia senza scuse» precisando che «per dire “no” alla guerra bisogna dire “no” alle armi. Perché, se l’uomo, il cui cuore è instabile e ferito, si trova strumenti di morte tra le mani, prima o poi li userà. E come si può parlare di pace se aumentano la produzione, la vendita e il commercio delle armi?».
Quanti sono realmente d’accordo con questa denuncia oggi, mentre si orchestra la campagna per il ReArm Eu promossa dalla Commissione europea?
È difficile resistere ad una pressione esercitata dai media prevalenti nei confronti di un’opinione pubblica finora distratta e ora sempre più impaurita, ignara di ciò che è avvenuto da almeno 30 anni nel nostro Paese dove una strategia di politica industriale, condivisa trasversalmente dalle principali forze politiche, ha comportato la dismissione nelle società controllate dallo Stato, Leonardo ex Finmeccanica su tutte, di settori civili dal forte impatto occupazionale (ad esempio la storia eccellenza nel settore ferroviario) e all’avanguardia nel campo tecnologico per privilegiare la filiera delle industrie delle armi collegate ai grandi gruppi statunitensi.
Si pensi ai caccia bombardieri F35 della Lockheed Martin predisposti anche per trasportare ordigni nucleari presenti nelle basi militari di Aviano e Ghedi, vicino Brescia.
Il presidente di Exor John Elkan ha dichiarato recentemente che Stellantis non ha intenzione di usare gli incentivi predisposti dal ministero delle Imprese e Made in Italy per favorire il passaggio dalla produzione di auto a quello delle armi. Come fa notare tuttavia Giorgio Airaudo, della Cgil del Piemonte, esistono già molti elementi di un rapido riorientamento produttivo verso il settore bellico come dimostra l’esempio di aziende metalmeccaniche che in precedenza producevano serrature per auto e che, a partire dall’inizio della guerra in Ucraina hanno iniziato a produrre caricatori per armi automatiche e grilletti per armi, aprendo nuove linee di produzione.
Come denuncia la rete delle mamme da nord e sud, realtà incentrata sulle minacce ambientali alla salute dei più giovani, a pochi chilometri da Roma, meta del Giubileo della Speranza, nell’area di Colleferro la società ex Simmel Difesa, ora Knds (gruppo franco-tedesco) ha presentato «un progetto per produrre nitro gelatina e polveri di lancio per proiettili ad uso militare nello stabilimento ex Winchester di Anagni (dove paradossalmente oggi si provvede al disinnesco dei proiettili scaduti)». «Knds dispone a Colleferro di uno dei più importanti stabilimenti per il caricamento, per la produzione e per i test di munizioni e bombe. Con la nuova linea produttiva della vicina sede di Anagni la società arriverà a fabbricare fino a 3 tonnellate di esplosivo ogni giorno, con una produzione stimata di 150 kg di nitro gelatina l’ora».
La guerra comincia da qui, dai nostri territori come richiede la necessità di trasformare l’economia in assetto di guerra.
Come afferma con realismo Airaudo, le discussioni e le manifestazioni, pur essendo benvenute, rimangono spesso a un livello di enunciazione etica, morale e politica, senza tradursi in un piano industriale e sociale concreto per il Paese e per l’Europa. Restare al livello etico e morale non è un problema per il sistema prevalente mentre la vera sfida è la reale «capacità di modificare concretamente i rapporti di forza nella società e nell’economia, trasformando ciò che appare ineluttabile, cioè la guerra, in una speranza e in un’alternativa praticabile attraverso un impegno diretto nei luoghi di lavoro e nella società».
L’Italia è cresciuta nella classifica delle esportazioni di armi nel mondo, passando in poco tempo dal nono al sesto posto facendosi trovare pronta alla “terza guerra mondiale a pezzi”, conquistando fette di mercato oltre il perimetro dei Paesi Nato grazie ad una assidua presenza nelle grandi fiere delle armi pesanti come quella che si svolge ogni due anni in Arabia Saudita, il World defense show.
Tutto ciò è avvenuto aggirando i limiti posti dalla legge 185/90 introdotta nel nostro ordinamento come declinazione della Costituzione grazie all’obiezione di coscienza dei lavoratori e lavoratrici che hanno lottato per una diversa piattaforma economica, mettendo a rischio la loro occupazione e quindi la loro stessa vita.
Quella legge prevede anche un fondo per la riconversione industriale dal bellico al civile che non è stato mai alimentato. Un centro studi per la riconversione è stato promosso a suo tempo dall’Università cattolica di Milano ma ha avuto vita breve per mancanza di finanziamenti. Per un certo periodo è andato avanti grazie alle liquidazioni dei lavoratori licenziati per il loro dissenso alla produzione di armi dirette a Paesi in guerra e/o che violano i diritti umani.
Un caso eclatante di applicazione della legge 185/90 si è avuto con la sospensione e poi il blocco dell’invio di missili e bombe dall’Italia all’Arabia Saudita dal 2019 al 2023 grazie all’impegno del comitato riconversione sorto in Sardegna per contestare il ricatto occupazionale della multinazionale tedesca Rheinmetall che controlla la Rwm Italia. Un grande risultato possibile grazie alle reti della società civile italiana e internazionale che ha permesso di rimettere al centro la questione della conversione economica integrale e quindi di adeguate politiche industriali realizzabili attraverso i fondi del Pnrr e la dotazione del Just transition fund previsto a livello europeo per le aree più fragili individuate per l’Italia nel Sulcis e nell’ex Ilva di Taranto.
Con il comunicato stampa n.37 relativo al “made in Italy del 31 maggio 2023” è stata annunciata la rimozione del divieto di esportazione di ordigni bellici verso l’Arabia Saudita a causa della «significativa riduzione delle operazioni belliche (che) comporta un’attenuazione altrettanto significativa del rischio di uso improprio di bombe d’aereo e missili, in particolare contro obiettivi civili».
Il governo italiano ha, poi, stretto nel gennaio 2025 un accordo strategico da 10 miliardi di euro che interessa anche il settore della difesa con l’Arabia Saudita che è costantemente tra i primi stati importatori di sistemi d’arma a livello mondiale. Riad è interessata a far parte con notevoli finanziamenti del progetto del caccia di sesta generazione Tempest che l’Italia sta sviluppando assieme a Regno Unito e Giappone, oltre all’ovvio interesse Usa, in competizione con altri progetti europei, a cominciare dalla Francia, a proposito di “difesa comune” promossa con il ReArm Europe promosso dalla Commissione europea presieduta da Ursula von der Leyen.
Occorre aver presente che la legge 185/90 sta per essere svuotata di efficacia grazie ad una riforma caldeggiata dall’Aiad (Federazione delle Aziende Italiane per l’Aerospazio, la Difesa e la Sicurezza), rendendo tra l’altro non più trasparente e accessibile la conoscenza sul coinvolgimento delle banche nel finanziamento delle industrie di armi.
In tale scenario si registra una certa persuasione dei ceti intellettuali sulla necessità del war fare sulla base della tesi falsa della crescita dell’occupazione assicurata dalla produzione di armi.
Contro la tesi dell’ineluttabilità della trasformazione dell’economia in assetto di guerra si levano alcune voci di economisti come quella di Luigino Bruni, Stefano Zamagni e anche il governatore della Banca d’Italia Fabio Panetta.
Ma occorre il coinvolgimento diretto del mondo accademico per sostenere proposte credibili di politiche industriali alternative a quella di Re Arm Eu. Per tale ragione è stato avviato, da più associazioni e centri studio, un Laboratorio permanente di riconversione economica per una politica industriale di pace.
È quanto mai necessario oggi promuovere il lavoro comune tra mondo della ricerca, associazioni e lavoratori per indicare l’alternativa possibile all’economia di guerra. È emblematica in questo senso la scelta compiuta dalla prestigiosa università statale di Pisa di vietare la ricerca sulle armi. Come ha detto il rettore Riccardo Zucchi «in questi tempi drammatici in cui la vita e la dignità umana hanno subito pesanti attacchi è indispensabile che l’università dia un segnale esplicito della sua scelta di campo a favore della pace e si dissoci da ogni attività volta allo sviluppo di armamenti. Abbiamo deciso di intervenire ai massimi livelli, andando a integrare nel principale atto normativo dell’ateneo questi principi fondamentali».
Disarmare l’economia non vuol dire fuggire il confronto serio su una difesa comune ma alzare il livello di una reale partecipazione democratica nelle scelte strategiche del nostro Paese, che non possono essere circoscritte a ristretti centri di potere.
Come dice papa Francesco, «la gente, che non vuole armi ma pane, che fatica ad andare avanti e chiede pace, ignora quanti soldi pubblici sono destinati agli armamenti. Eppure dovrebbe saperlo! Se ne parli, se ne scriva, perché si sappiano gli interessi e i guadagni che muovono i fili delle guerre».
È pura retorica di carattere populista? Oppure è un invito da prendere sul serio affrontando questioni rimosse da tempo come ad esempio la finalità di un grande patrimonio pubblico come la società Leonardo?
È troppo? Ciò che frena il pensiero prima ancora dell’agire, di fronte alla guerra mondiale a pezzi che si stanno componendo tra loro, è la tentazione costante di ritenersi ininfluenti sul destino del mondo.
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