Diritto di asilo

Masomeh, rifugiata dell’Iran, è una scrittrice. Per la verità, ha scritto qualcosa di troppo: un libro sulla condizione delle donne iraniane che la guerra contro l’Iraq aveva lasciate abbandonate a se stesse. Al regime iraniano di quegli anni la cosa non piacque. Torturata, ha lasciato il suo paese col marito e i quattro figli e, dopo un viaggio allucinante, è arrivata in Italia. Ha aspettato nove mesi per ottenere lo status di rifugiata, abitando, nel frattempo, in un centro di accoglienza del comune di Roma. Ora stanno in una scuola occupata, e non ne sono contenti: “Non è regolare, non è un posto per vivere”. Quel che più la colpisce è che l’Italia non abbia una legge per quelli come lei: “Noi non siamo venuti qui perché non avevamo un lavoro, una casa, soldi, cose materiali. Noi siamo dovuti scappare, non potevamo rimanere nel nostro paese”. E proprio questo è il punto. Le democrazie occidentali sono sorte sulla base di diritti di libertà e di dignità della persona, affermati come universali; per il fatto stesso di esistere si sono assunte la responsabilità di applicare tali diritti, dandosi l’obbligo di accogliere tutti coloro che, nel proprio paese, se li vedono negare. E se l’Italia è una democrazia, deve coerentemente e concretamente garantire il diritto di asilo. È anche dal modo con il quale uno stato affronta questi problemi, che si decide la sua natura, e la qualità della vita non solo dei rifugiati, ma di tutti gli altri cittadini. In altri termini, uno stato democratico non ha obblighi soltanto nei confronti dei propri cittadini, ma nei confronti di tutti gli esseri umani cui sono rivolti i princìpi sui quali si è costruito. In Italia il diritto di asilo è formalmente riconosciuto: lo prevede l’art. 10 della Costituzione. Ma manca ancora una legge organica sulla materia. Nella precedente legislatura arrivò in aula un testo unico sulla materia, che non si è voluto portare avanti. La recente legge Bossi-Fini sull’immigrazione dedica due articoli al diritto di asilo: si tratta di emendamenti ed integrazioni della vecchia “legge Martelli” del 1990: da quell’anno ci separa poco più di un decennio, ma sembrano anni luce: prima della tragedia della ex-Jugoslavia, le immagini di un’Europa attraversata dai profughi sembrava potessero essere solo reperti storici, e non cronaca; e non potevamo ancora prevedere quale altro grande flusso migratorio sarebbe arrivato dai paesi dell’ex impero sovietico: e questi migranti come li consideriamo: vittime di una catastrofe naturale o politica? Lo strumento giuridico per riconoscere lo status di rifugiato è ancora la Convenzione di Ginevra del 1951, che all’art. 1 definisce il rifugiato come una persona che, “temendo di essere perseguitata per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova al di fuori del paese di cui è cittadino e non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo paese”. All’epoca, si aveva a che fare con i profughi causati dalla seconda guerra mondiale; proprio per soccorrerli, nel 1950 l’Assemblea generale delle nazioni Unite creò l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr, o, in italiano, Acnur): un istituto che, esaurito il problema per il quale era nato, purtroppo non è mai rimasto senza lavoro. Questo organismo, all’inizio del 2001, ha stimato che gli esseri umani bisognosi di asilo erano 21,1 milioni: oltre la metà di essi è composta da bambini e adolescenti. Ma solo 2,4 milioni sono in Europa, e solo 23 mila di essi in Italia. Il problema è che lo status di rifugiato, in base alla Convenzione di Ginevra, è concesso ratione personae, cioè sulla base di una accertata persecuzione individuale. Non ricadono sotto questa caratteristica gli sfollati che rimangono all’interno del loro paese, i profughi, i migranti, anche se tutte queste categorie di persone si trovano, spesso, in condizioni drammatiche, a causa di conflitti o persecuzioni. L’orientamento generale degli stati è di non allargare la definizione di rifugiato data dalla Convenzione di Ginevra: non vogliono farsi carico di migrazioni di massa; per proteggere le altre categorie si utilizza allora l’istituto della “protezione temporanea”, che non equipara ai cittadini dello stato di accoglienza, ed è diversamente interpretato dai diversi stati. Il problema dei rifugiati – dopo la Convenzione di Dublino e il Trattato di Amsterdam – è ormai affrontato a livello di Unione europea. Il cui orientamento attuale si può ricavare dal Progetto di direttiva della Commissione europea in materia di protezione temporanea (maggio 2000). La direttiva è il lo strumento tipico di armonizzazione delle legislazioni degli stati membri e vincola gli stati stessi ad adeguare i propri ordinamenti interni. La direttiva in questione, sulla scorta delle drammatiche esperienze europee dell’ultimo decennio, va oltre il principio della persecuzione personale stabilito dalla Convenzione di Ginevra. È importante il fatto che essa si applichi nei confronti degli sfollati, cittadini stranieri e apolidi, fuggiti da aree dove sono in corso conflitti armati o violenze endemiche; alle persone vittime di violazioni sistematiche o generalizzate dei diritti umani o soggette a tale rischio. Stabilisce inoltre il principio della parità di trattamento tra i titolari della protezione temporanea e i rifugiati, per quanto riguarda sicurezza sociale e lavoro, accesso all’istruzione per minorenni, diritto all’abitazione; assicura la tutela legale dei minori non accompagnati e il diritto al ricongiungimento famigliare (in riferimento alla Convenzione sui diritti del bambino, 1989, art. 10). Se gli orientamenti europei sono chiari, non si capisce perché l’Italia debba aspettare ancora a fare una propria legge coerente con essi. Li incontriamo per la strada, salgono sui nostri stessi autobus. Sono prodotti dagli equilibri (o dagli squilibri) politici ai quali nessuno stato ormai estraneo. Dunque sono un problema nostro, non solo “loro”. Garantire ai rifugiati il loro diritto non significa solo dare, ma anche ricevere tutto il bene che li metteremo in grado di realizzare. Non sono inutili, i rifugiati: nella loro lunghissima lista, per fare solo due esempi, ci sono anche i nomi di Gesù Cristo e Albert Einstein. L’ITALIA E I RIFUGIATI C’è anche chi opera attivamente in loro favore, ed è in grado di dare una valutazione competente della situazione dell’asilo nel nostro paese. Ne parliamo con Francesco De Luccia, s.j., presidente dell’Associazione Centro Astalli. Al 14 A di via degli Astalli, a Roma, a due passi da Piazza Venezia, corrisponde una porticina poco adeguata alla vastità del compito di chi lavora al suo interno. Si scendono le scale e ci si inoltra in un ambiente spartano; pareti piastrellate nelle quali si aprono altre porte: aule scolastiche, uffici, la cucina per la mensa. Percorrendo l’ampio corridoio ci si imbatte in persone di svariati colori; perché il Centro Astalli è punto di approdo per tutti coloro che, arrivati a Roma con storie di persecuzioni e di stenti, hanno bisogno di informazioni, di sostegno, di imparare l’italiano, di un piatto caldo. Imbocco la porta sempre aperta di padre Francesco De Luccia, il perno intorno al quale gira questa rappresentanza dell’universo umano. Padre De Luccia, qual è la situazione attuale in Italia dei richiedenti asilo e dei rifugiati? “È grave. Il loro diritto è assicurato più in teoria che nella realtà. Basti dire che dal momento in cui una persona chiede asilo, all’arrivo della risposta, possono passare anche 18 mesi. La procedura è lunga, farraginosa, incerta. In questo periodo il richiedente non è assistito, se non per i primi 45 giorni, con un contributo dello stato che, peraltro, la nuova legge Bossi-Fini ha abolito. “Va dato atto che la Bossi-Fini prevede il piano nazionale di asilo, che istituisce l’assistenza di coloro che lo richiedono, attraverso progetti gestiti dai comuni, per tutto il periodo di attesa; il quale, però, non dovrebbe durare oltre 35 giorni: termine massimo entro il quale la richiesta dovrebbe avere risposta. Se funzionasse, avremmo risolto un problema, ma non funzionerà: in base alla mia esperienza, 35 giorni non bastano per espletare tutte le pratiche”. La Bossi-Fini contiene due articoli sull’asilo politico: come li valuta? “Nascono con l’intento di impedire gli abusi nella concessione del diritto di asilo; e di impedire, in particolare, che le persone ospitate nei centri di permanenza temporanea in vista dell’espulsione, la evitino chiedendo l’asilo. Così si è colpito l’abuso senza avere prima regolato l’uso”. Possiamo dire che il problema è trattato dal punto di vista dell’ordine pubblico, e non come assicurazione di un diritto? “Esattamente. Un elemento negativo di questa nuova legge sta nel fatto che non prevede una reale possibilità di ricorso contro il diniego dell’asilo. Attualmente, una persona che si vede rifiutare l’asilo dalla Commissione, può fare ricorso al tribunale civile: il giudice entra nel merito della questione e la sua sentenza può riconoscere lo status di rifugiato; durante questa istanza di ricorso il Tar sospende l’esecuzione dell’espulsione; la possibilità del ricorso tutela effettivamente la persona. “La nuova normativa prevede l’istituzione di “commissioni territoriali per il riconoscimento dello status di rifugiato”, alle quali va inoltrata la domanda di asilo; e di una Commissione nazionale che ha compiti di monitoraggio, di orientamento e di formazione. Se la domanda viene respinta, il ricorso può essere fatto solo alla stessa Commissione territoriale, integrata da un membro della Commissione nazionale. È evidente che una norma di questo genere suscita obiezioni di incostituzionalità, perché non si può far ricorso allo stesso soggetto contro il quale si ricorre, a meno che la composizione della commissione non cambi nella sostanza, cosa che non è. “Ugualmente, odora di incostituzionalità il fatto che questa stessa commissione decida l’espulsione con accompagnamento alla frontiera: ci vuole un giudice, a mio parere, per decretare una cosa del genere, che tocca i diritti della persona”. E qualche aspetto positivo? “La nuova legge prevede la possibilità di protezione per motivi umanitari; si rivolge a quelle persone che non rientrano nella categoria menzionata nell’art. 1 della Convenzione di Ginevra – cioè coloro che hanno subito una persecuzione personale -, ma che comunque, se rimandate nel loro paese, correrebbero rischio di perdere la vita. A costoro la Bossi-Fini (più chiaramente della precedente legge Turco-Napolitano) concede il “permesso di soggiorno per protezione umanitaria”; la protezione concessa è inferiore a quella del rifugiato, ma tali permessi abilitano al lavoro e allo studio, e possono essere rinnovati dopo un anno”. Ma, a questo punto, non sarebbe meglio mettere mano ad una nuova legge sul diritto di asilo, anziché continuare con le modifiche e le integrazione alle norme precedenti che appaiono, in ogni caso, notevolmente inadeguate? “Certamente, una legge organica è assolutamente necessaria” E non si potrebbe ripartire dal testo unico uscito dalla commissione nella scorsa legislatura, mandato in aula, e che poi non è stato più preso in considerazione? “Era un testo molto buono; che è stato ripescato in questa legislatura dall’on. Enzo Trantino, di Alleanza nazionale, e ripresentato a nome proprio e di altri colleghi, ma non ha fatto passi avanti. L’idea della Bossi- Fini, di aspettare che entrino in vigore le normative europee, non esime dal fare una legge italiana, tanto più che l’orientamento europeo è già noto, dato che la direttiva riguardante gli standard minimi di accoglienza è ormai in dirittura di arrivo al Consiglio d’Europa, e gli stati membri dell’Unione dovranno adeguare i propri ordinamenti per attuarla”. A quali princìpi dovrebbero ispirarsi sia il legislatore che il volontario e, ancora, i cittadini, che potrebbero far pressione sui propri rappresentanti per ottenere una legge? “Ai princìpi della dottrina sociale cristiana, secondo la quale deve sempre essere messa al centro la persona. E la persona che nel proprio paese non può godere dei diritti minimi, quali la libertà personale, l’alloggio, l’educazione per i figli, l’assistenza sanitaria, ha il diritto sacrosanto di cercare altrove la loro soddisfazione: a maggior ragione coloro che hanno subito persecuzioni. C’è un diritto da riconoscere a queste persone, che si traduce in fatti concreti; anzitutto l’uniformità delle procedure in tutta Italia: il margine di discrezionalità lasciato ai funzionari che se occupano dev’essere minimo. E bisogna che le persone abbiano un tetto, il vitto, le cure sanitarie, la scuola per i figli, dal primo giorno che arrivano qui. Attualmente – basta guardare le strade di Roma – ci sono centinaia di richiedenti asilo che dormono per la strada, incluse le donne e i bambini”. Per dare un’idea, a Roma, ai tradizionali clandestini, si sono ormai aggiunti anche molti argentini di origine italiana, probabilmente benestanti fino a qualche tempo fa e rovinati dalla recente crisi, che dormono all’aperto con i loro figli: non ci sono mezzi sufficienti per togliere, loro e gli altri, da questa condizione? “Non ci sono perché non si vuole, perché l’idea è quella di scoraggiarli a venire e a restare. L’Italia è, per la maggior parte di loro, un paese di passaggio, per poi andare da altre parti: e che non si fermino in Italia, di fatto, è una cosa che sta bene a tutti. Certamente, con una legge sull’accoglienza, se ne fermerebbero di più, ma l’Italia ha il dovere di condividere con gli altri paesi il peso dell’accoglienza dei rifugiati. E condividerlo non solo con gli altri paesi europei, ma anche con i paesi poveri che si fanno carico della maggior parte degli oltre 20 milioni di rifugiati oggi esistenti nel mondo”. Dovremmo essere tra gli “8 grandi” anche in questo…

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