Dentro la domanda di eutanasia

La rabbia, la paura, la depressione, la forza… i percorsi di cure palliative sono il modo “umano” di rispondere a queste domande, non il “protocollo” che porta ai luoghi asettici della “buona morte”
Proteste in Spagna contro la legge sull'eutanasia (AP Photo/Paul White)

È una donna di mezza età piuttosto chiusa in sé stessa, come comprensibile dopo la recente diagnosi di tumore del pancreas. Sembra che il mondo ce l’abbia con lei… e che lei ce l’abbia con il mondo. Inizierà a breve la chemioterapia. «Come sta? Che cosa possiamo fare per lei?», chiedo. «Dottore, quello che io vorrei lei non lo può fare. A me interesserebbe solo l’eutanasia. Io ho questo piano ma so che di questo non possiamo parlare». Invece no, dobbiamo parlarne. «Mi interessa moltissimo, signora. Perché io invece avrei un altro piano per lei…».

Incuriosita, si apre un po’ alla volta al colloquio e al dialogo: e così, come spesso accade, emerge che ha sentito parlare molte volte di eutanasia “per non soffrire”, ma che anche per lei, come per tanti, le cure palliative sono una sorpresa e una novità, ancora oggi.

E parliamo a lungo, della possibilità di controllare il dolore che non è “la strada obbligata” del cancro, della promessa di “non essere lasciati soli”, della disponibilità di luoghi (la casa o l’hospice) e persone (le équipe di cure palliative) per non dover per forza “morire in ospedale”. Della promessa di “esserci” anche quando -se necessario – venisse il tempo e la necessità della sedazione palliativa, che non è eutanasia.

Il ponte si è costruito, è solo l’inizio di un percorso che sarà ancora lungo, a volte difficile, altre volte condito da un acuto senso dell’umorismo, su temi su cui torneremo molte volte, ma con l’unico filo conduttore di quell’essersi guardati negli occhi e aver affrontato la domanda senza pregiudizi e senza fughe.

È importantissimo entrare, accogliere, comprendere ciò che c’è dentro questa domanda, diventata più frequente (potenza dei media?).

Perché dentro la domanda di eutanasia ci sono molte parole:

  • a volte c’è la rabbia (“perché a me?”)
  • spesso c’è la paura (“soffro, dovrò soffrire sempre”)
  • sempre di più c’è il “non voler essere un peso” (per la famiglia, per i propri cari)
  • altre volte il “non voler essere un costo” (ma chi ce lo ha indotto questo pensiero così forte, sempre più diffuso?)
  • talvolta esiste la “depressione”, del tutto fisiologica dopo una diagnosi infausta, e gestibile se correttamente riconosciuta
  • qualche volta – in modo apparentemente paradossale – c’è una forte affermazione di vita (“chiedere l’eutanasia come ragione di vita”), di protagonismo e affermazione della propria volontà e autonomia (“non voglio dipendere dagli altri”).

Ma a pensarci bene, queste sono le domande che quotidianamente affollano la mente di quasi tutti i nostri malati, a volte espresse, altre volte, più spesso, “tenute dentro” nell’amplificazione della sofferenza.

La “risposta” a quella domanda di eutanasia, quindi, non è soltanto un tema etico o la conseguenza di personali convinzioni né tantomeno l’obbligo di una legge: una prospettiva autenticamente umana è quella di farsi carico di tante singole domande, anche quelle senza risposta, e di tutte le componenti che ci accompagneranno, se lo vorremo, in un viaggio di cura da costruire insieme senza sapere prima dove ci porterà.

  • La “rabbia” è una fase, va accolta, accompagnata, non può rimanere “l’ultima parola”,
  • la “paura” merita risposte concrete, “preventive”, su quanto si può e si deve fare per controllare la sofferenza fisica (ma ci vogliono specialisti di questo, non atteggiamenti rinunciatari dopo i primi risicati milligrammi di morfina…)
  • “essere un peso”, “essere un costo”… davvero il “dolore globale ha tante facce e dimensioni. Può essere psichico, nella relazione dentro di sé e con i propri cari, può essere “sociale”, di perdita di ruolo. La differenza possono farla i luoghi di cura, gli sguardi, le vicinanze. Ma anche i percorsi: l’umiliazione di dover peregrinare per mille uffici per il riconoscimento di un diritto basilare (l’esenzione del Ticket o i giorni della “legge 104”), rispetto a Servizi capaci di una presa in carico globale anche degli aspetti burocratici e amministrativi.
  • La “depressione”, così diffusa anche fra i cosiddetti “sani” da essere considerata il vero “male del secolo”: davvero non vogliamo provare a curarla? Davvero può essere “un buon motivo” per assecondare il desiderio di darsi la morte?
  • La “forza” dell’identità e dell’autonomia: si possono aprire prospettive di senso e significato anche alla fine della vita? Il primo passo sono il riconoscimento e il rispetto (“lo sguardo dell’altro” come specchio in cui ritrovarsi nella propria interezza), la libertà, l’assenza di giudizio.
  • La “dipendenza” non potrà essere sostituita da un concetto vissuto di reciprocità in cui – nella umana comune fragilità – vicendevolmente si dà e si riceve, nel rapporto di cura?

Certo, è difficile: ogni storia personale esce da qualsiasi schematizzazione.

E sarà sempre più difficile (i tempi di un vero percorso di cura sono incredibilmente più lunghi e a volte tortuosi rispetto a un “protocollo” che porta ai luoghi asettici della “buona morte”). Ma come hanno detto molto bene i palliativisti della SECPAL (Società Spagnola di Cure Palliative), la questione non è solo il “quando morire” (on-off, decido io il giorno e l’ora): la dignità e l’autonomia passano attraverso la possibilità di una scelta autenticamente libera di dove morire” (a casa, in hospice … non necessariamente in una terapia intensiva!), “con chi morire” (con i propri cari… o da soli… o con si ama sul serio indipendentemente dai rapporti anagrafici), “come morire” (senza dolore, in un clima di serenità, anche sedati se necessario e nella condivisione di una pianificazione anticipata del rapporto di cura…).

Tutto questo le équipe palliativistiche (medici, infermieri, psicologi, fisioterapisti, assistenti spirituali volontari) lo fanno concretamente in centinaia, migliaia di case e di stanze hospice, tutti i giorni, tutto il giorno, nel silenzio del lavoro quotidiano.

E per questo devono continuare ad affermare che con l’eutanasia le cure palliative non c’entrano niente

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