Debito pubblico, paradisi fiscali e flat tax

Che incidenza reale possono avere alcune proposte emerse dall’incontro dei cattolici italiani a Cagliari e passate, finora, sotto silenzio? Intervista a Carlo Clericetti, giornalista esperto del Club dell’Economia
AP Photo/Kirsty Wigglesworth

L’Italia è un Paese «senza progetto e davanti ad un baratro», come ha detto Prodi in una recente intervista, e tuttavia le proposte emerse dalle settimane sociali di Cagliari sono state snobbate dalla grande stampa cosiddetta laica? Come mai? Peccano di incisività di eccessiva moderazione o di scarso realismo? Se lo è chiesto Luigino Bruni su Avvenire cercando di offrire alcune risposte di merito e di metodo. Eppure l’evento, che ha visto la partecipazione di oltre mille delegati da tutta Italia, la direzione di un comitato scientifico autorevole teso ad indicare la prospettiva di associare la denuncia alla proposta sulla questione cruciale del lavoro, ha mobilitato un efficiente ufficio stampa, il lavoro di una testata nazionale in crescita (Avvenire) e di un canale televisivo (TV2000) sdoganato dal taglio confessionale e tale da non temere paragoni di qualità con le altre fonti.

Cerchiamo, quindi, di ritornare su alcune singole proposte emerse a Cagliari parlandone con Carlo Clericetti, giornalista di grande esperienza che fa parte del Club dell’Economia, associazione che raduna docenti e giornalisti esperti, appunto, di questa complessa materia, ed è stato tra gli ideatori dell’inserto “Affari e Finanza” di Repubblica, quotidiano con cui collabora e dove tiene un blog dal titolo emblematico: “Soldi e potere”. Alcuni dei suoi interventi più significativi si trovano, anche, sul sito della rivista di critica sociale “Eguaglianza e Libertà”.

Una delle proposte delle settimane sociali, emerse e consegnate al presidente del parlamento europeo Tajani, è stata quella di eliminare i paradisi fiscali interni all’Unione europea. Tempo addietro, l’economista Zamagni ci ha detto che l’eliminazione dei paradisi fiscali potrebbe avvenire tecnicamente in poche ore, ma manca la volontà politica. Perché ciò non avviene?

Zamagni ha certamente ragione, ma eliminare solo quelli interni alla Ue avrebbe il solo effetto di far spostare i capitali verso le altre decine di paradisi extra-Ue. Anche per quelli, vale lo stesso discorso: potrebbero essere eliminati tutti, se ci fosse l’accordo dei principali Paesi. Ma molti politici importanti e ancor di più i loro finanziatori sono ottimi clienti proprio dei paradisi, quindi non è molto realistico pensare che vogliano eliminarli. Anche al di là del problema dei paradisi, sarebbe comunque importante un’armonizzazione fiscale nella Ue, ma non si vuole perseguire nemmeno questo obiettivo minimo.

E, infatti, tale armonizzazione è inserita nelle richieste finali delle settimane sociali. Ma oltre ad indignarsi di fronte a tale inerzia e ai continui scandali sui nomi eccellenti che usano impunemente i paradisi fiscali, cosa occorrerebbe fare da parte delle forze sociali  per eliminare davvero questa anomalia che drena risorse dai bilanci pubblici?

La sola cosa che possono fare le forze sociali è di non stancarsi nel denunciare il problema e tenere viva l’attenzione dell’opinione pubblica in proposito. Al momento delle elezioni chiedere ai candidati un impegno pubblico a fare quanto possono per spingere i governi ad affrontare il problema.

A proposito del bilancio dello Stato, è riecheggiata in varie relazioni di Cagliari, il riferimento a quanto avvenuto negli anni ‘80 in Italia con il raddoppio del debito pubblico. Secondo la narrazione comune si tratterebbe dell’espansione di una spesa sociale parassitaria destinata a costituire un cappio al collo delle nuove generazioni. Secondo Gallino l’aumento abnorme si spiegherebbe, in gran parte, in maniera diversa e cioè con la scelta di Andreatta e Ciampi di interrompere l’acquisto da parte di Bankitalia dei titoli di stato, offerti perciò a investitori esteri attirati da rendimenti superiori alla media. Cosa ne pensi?

La spesa sociale è aumentata in quegli anni a un ritmo in linea con quello degli altri Paesi europei. C’è stato invece un ritardo nell’adeguare il livello delle entrate. Attribuire al divorzio Tesoro-Bankitalia tutta la responsabilità dell’aumento del debito mi sembra esagerato: non bisogna dimenticare il contesto internazionale, che era di alta inflazione e alti tassi reali. Ciò detto, la mossa ha senz’altro contribuito ad aumentare il costo del finanziamento del debito, ed è stata inopportuna e sbagliata sia per il momento scelto, sia perché ha eliminato uno strumento a disposizione della politica economica.

Ogni altra proposta avanzata a Cagliari, anche il contrasto della corsa al ribasso per gli appalti pubblici, deve fare i conti con i limiti del fiscal compact che impone una politica di austerità.  Un vincolo alla spesa pubblica criticato anche da ministro come Del Rio che ha detto: «È stato un grave errore firmarlo come anche inserire il pareggio di bilancio in Costituzione». Ci sono margini per arrivare a cambiare le regole?

Negli accordi sul Fiscal compact era previsto che dopo 5 anni venisse riesaminato e la scadenza è proprio ora. Bisogna innanzitutto evitare che venga inserito nel Trattato sull’Unione europea (ora è soltanto un accordo tra Stati). Questo obiettivo è realistico, e dovrebbe essere sostenuto da mobilitazioni almeno pari a quelle contro il Ttip. Questo non significa cancellare il Fiscal compact, purtroppo, ma almeno lo rende politicamente più debole e meno cogente. Quanto a cambiare le regole, è bene preoccuparci di più di quelle in preparazione per la cosiddetta riforma della Ue: se passasse la versione sostenuta dalla Germania (di una diversificazione della rischiosità dei titoli di Stato, con conseguenze pesanti sia sulle nostre banche che sul debito pubblico, e a vantaggio dei titoli tedeschi e francesi, ndr) sarebbe un disastro soprattutto per l’Italia, tanto che persino economisti mainstream come Francesco Giavazzi se ne mostrano preoccupati. Bisogna tenere alta la guardia su questo problema e incalzare la politica per evitare scambi miopi e dannosi (p. es., la concessione di un po’ di flessibilità ora in cambio dell’approvazione di una riforma che ci metterebbe poi in gravissima crisi).

Ogni pretesa di diminuire le diseguaglianze parte dalla necessità di tassare in maniera progressiva la ricchezza, evitando di “far parti uguali fra diseguali”. La proposta della flat tax (una tassa minima per tutti) avanzata dall’Istituto Bruno Leoni riceve, invece, forti consensi dal centrodestra che sembra andare con il vento in poppa verso le prossime elezioni politiche. Cosa sta accedendo secondo te? La questione uguaglianza non è sentita neanche dal ceto medio impoverito oppure è esiste solo un difetto di presentazione?   

Il ceto medio impoverito – come pure quelli meno abbienti – è stato tradito dalla sinistra tradizionale, che si è convertita al pensiero unico, e giustamente non se ne fida più. La sinistra cosiddetta radicale – che di radicale ha ben poco – subisce di riflesso questa sfiducia e peraltro appare divisa, confusa e finora non in grado di proporre un progetto alternativo in grado di raccogliere consenso, recuperando l’area sempre più vasta dell’astensione. Anche se alle prossime elezioni vincerà la destra, come purtroppo al momento sembra probabile, non credo che riuscirà a realizzare il progetto di flat tax, che nessun ultraliberista al governo è stato finora in grado di introdurre. Ma il processo di eliminazione della progressività delle imposte è di lungo periodo e probabilmente proseguirà, così come la progressiva riduzione del welfare e la privatizzazione dei servizi essenziali, finché non ci sarà una forza politica in grado di far invertire la tendenza. Oggi in Italia non se ne vede traccia. All’estero sono da seguire con interesse e con qualche prudente speranza le vicende del Portogallo e del Labour di Jeremy Corbin.

 

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