De Nobili, un “paranghi” diverso

Dal terrazzo dell’Hotel Temple View mi godo la vista della città di Madurai. Le quattro torri del Meenakshi Temple si stagliano nell’aria già calda del mattino, che una brezza piacevole rende ancora sopportabile. Il tempio, magnifico, come in tutte le città sante dell’India, è immenso: un amico che lo visitò due anni fa, dovette uscire dopo pochi minuti. Mi sentivo soffocare, mi confessò. È vero: l’architettura è maestosa, la folla arriva a ondate continue, il profumo del sacro ghee pervade l’aria mischiandosi al dolciastro dei fiori offerti. Madurai è la città più significativa del Tamil Nadu: attorno al Meenakshi si è sviluppata la cultura, la lingua e la religione dei tamil. Tutto è tamil: la lingua parlata, quella scritta e persino quella che, attorno al tempio, sulle pareti millenarie di granito, racconta gli antichi miti. È antica come il sanscrito e non ne conosce la contaminazione imposta, invece, al lessico delle altre tre lingue dravidiche. Qui si percepisce, come da nessun’altra parte, la sacralità dell’induismo del sud dell’India. Siamo al centro di quella cultura brahaminica capace di recuperare, all’inizio del secondo millennio, il modo di esprimere il rapporto con Dio che il buddhismo aveva tolto agli indù. Ripenso al giorno prima, alla scena che si svolge davanti ed all’interno del tempio: i brahmini che officiano, con i capelli arrotolati sulla nuca e il filo di cotone che scende sul petto nudo, i fedeli che offrono i pooja, i fuori casta che ruotano attorno al cuore pulsante e che, fino a pochi decenni orsono, erano banditi dalla zona sacra, le decine e decine che escono con i segni di pasta di sandalo sulla fronte. È qualcosa che ha il sapore dei millenni: sono le scene, di fronte alle quali, 400 anni fa, si trovò De Nobili. Non posso non pensare a lui. Roberto De Nobili, gesuita marchigiano, giunse a Madurai nel 1606, dopo una breve sosta a Goa, centro della cattolicità latina del XVI e XVII secolo, dove era ancora vivissimo il ricordo di Francesco Saverio. Erano tempi difficili. La Chiesa era ancora in balia delle corone di Spagna e Portogallo che, oltre alle scoperte geografiche, avevano realizzato conquiste e portato con sé evangelizzatori. Si trattava di predicare la buona novella a popoli fino a un secolo prima sconosciuti. De Nobili, come tanti altri gesuiti, era partito sulle navi reali del Portogallo. Quando giunse a Madurai la situazione che si trovò davanti agli occhi lo lasciò di stucco. Lo aveva preceduto il padre Gonçalo Fernandez, anch’egli gesuita, che in undici anni non era riuscito a convertire un solo locale alla fede cristiana. Si rese conto immediatamente che gli ostacoli alla diffusione del cristianesimo erano legati a fattori sociali e culturali. I missionari, infatti, tipicamente occidentali nel loro comportamento e stile di vita, erano definiti paranghi ed il cristianesimo era presentato come paranghi m?rgam, la via dei paranghi. Essere chiamati così era tutt’altro che un complimento. Non solo perché i nuovi convertiti appartenevano ai gruppi sociali più bassi, ma anche per l’immagine che i colonizzatori portoghesi avevano dato. La loro presenza era, infatti, spesso caratterizzata da violenza, libertinaggio e corruzione. I missionari erano identificati con questi occidentali e, qualche volta, finivano per essere attirati dagli stessi interessi umani. Inoltre, la società locale era caratterizzata dalla divisione in caste, ed i missionari s’identificavano con i gruppi sociali più bassi, sia perché avvicinavano solo quelli, sia perché le loro abitudini (soprattutto alimentari) li accomunavano a gente impura. Le conseguenze erano inevitabili. Nella prospettiva del binomio puro-impuro, concetto chiave della struttura castale, nessuno fra chi apparteneva alle caste elevate (brahmini, rajah…) li avvicinava per paura di contaminazione. De Nobili fece scelte decisive e sorprendenti, rompendo con la linea di chi lo aveva preceduto, cercando di diventare indiano, per quanto straniero. Approfittando delle sue origini nobili, riuscì a convincere la popolazione locale che non era un paranghi, ma r?ajarishi, un nobile che proveniva da Roma, dello stesso lignaggio dei principi locali. Abbandonò lo stile di vita occidentale, diventando vegetariano osservante, e si trasferì in una capanna fuori della residenza degli altri gesuiti. Progressivamente scelse anche di vestirsi secondo lo stile locale con lo scialle arancione (tipico dei rishi), il yajnopavita (filo di cotone attorno al collo ricadente sul petto), il kudumi (ciuffo di capelli raccolti sulla nuca). Prima della celebrazione della messa, osservava i bagni rituali, che gli indù facevano prima delle loro funzioni sacre e si cospargeva la fronte di santal (pasta di sandalo). A questi aspetti di comportamento e di abitudini quotidiane, aggiunse lo studio del tamil e del sanscrito per poter capire come spiegare le verità cristiane con termini comprensibili agli intellettuali locali. Nel giro di qualche anno divenne uno studioso riconosciuto ed apprezzato delle lingue locali e dei libri sacri, i Veda. Finì per sviluppare una liturgia raffinata, come tutti i riti induisti, e costruì chiese nello stile architettonico locale De Nobili, da un lato, rompe decisamente con il paranghismò, ma, dall’altro, sembra approvare usi e costumi indù e, soprattutto, la divisione castale della società. Egli stesso spiega il suo metodo di evangelizzazione, scrivendo al padre provinciale: Visto che ho cambiato il mio modo di vestire e di vivere, adattandomi a tutte le usanze del Paese, molti, per grazia di Dio, si sono convertiti in breve tempo e sono divenuti ottimi cristiani. Spero che il numero cresca giorno dopo giorno, e certamente così sarà, se la gente si libererà di quell’impressione sbagliata e vedrà che i nuovi convertiti continueranno a seguire le usanze della loro razza e casta per quanto riguarda il cibo, lo stile di vestire ed i rapporti sociali, senza diventare paranghi, ma semplicemente abbandonando le superstizioni e l’idolatria per adorare il vero Dio. Le scelte del gesuita italiano non erano casuali. De Nobili faceva parte della scuola di un altro grande gesuita marchigiano, padre Valignano, visitatore apostolico dell’Asia, che aveva formato un gruppo irripetibile di uomini all’incontro di culture millenarie ed impenetrabili. Matteo Ricci sarebbe arrivato a Pechino alla corte imperiale, Valignano appunto in Giappone, oltre a De Nobili, anche Beschi sarebbe diventato brahmino fra i brahmini del Sud India e poi in Tibet e in Vietnam. Avevano capito che per spiegare Cristo era necessario un processo di adattamento culturale ai contesti locali. Ma non tutti erano pronti. La teoria dell’adattamento del Vangelo alle culture locali fu presto oggetto di critiche e di denunce da parte di confratelli e di religiosi di altri ordini. Intervennero superiori e vescovi e si arrivò fino al papa. Anche in India, come in Cina, il processo si arrestò. Resta indubbio, comunque, che, come occidentale e cristiano, De Nobili riuscì in un’operazione notevole: distinguere la cultura dalla religione. Lo seppe fare senza fermarsi ad un adattare fine a sé stesso e senza ridursi ad un tentativo d’appiattimento o di relativismo. La sua era un’operazione per individuare un metodo capace di arrivare all’evangelizzazione. Il contributo di De Nobili è notevole, sia pure con i limiti legati al tempo storico ed alla mentalità e formazione filosofico-teologica. Se ne coglie la portata leggendo i primi documenti della nascente congregazione De Propaganda Fide. Non possono non colpire, infatti, alcuni passi dell’Istruzione per i vicari apostolici della Cocincina, del Tonchino e della Cina, emanata nel 1659: Non compite nessuno sforzo, non usate alcun mezzo di persuasione per indurre quei popoli a mutare i loro riti, le loro consuetudini e i loro costumi, a meno che non siano apertamente contrari alla religione e ai buoni costumi. Che cosa c’è, infatti, di più assurdo che trapiantare in Cina la Francia, la Spagna, l’Italia o qualche altro Paese di Europa? Non è questo che voi dovete introdurre, ma la fede, che non respinge, né lede i riti, le consuetudini di alcun popolo, purché non siano cattivi, ma vuole piuttosto salvaguardarli e consolidarli. C’è, infine, un aspetto della personalità del De Nobili che dà grande valore alla sua opera ed al suo pensiero: la sua fedeltà incrollabile, anche nei momenti più delicati e di maggiore controversia, all’autorità della Chiesa. Qui la genialità dell’uomo si è unita alla sapienza dell’umiltà. È mio desiderio – scriveva – che tutto quanto ho scritto sia conforme al pensiero della nostra santa madre Chiesa, romana e cattolica. La imploro di correggere qualsiasi errore, punto che necessiti chiarezza o che sia di offesa a chiunque, che inavvertitamente mi sia sfuggito. Ed imploro, infine, coloro che potrebbero ricopiare o tradurre questi miei libri di porre questa nota a conclusione di ogni volume. In queste parole sta tutto il dramma ma anche la grandezza di un uomo audace che seppe coniugare, come il suo tempo glielo permetteva, la spinta a far conoscere la Buona novella a più gente possibile, con il tentativo di liberarla da forme culturali che potevano impedirle di essere colta nella vera dimensione d’universalità dell’annuncio di Cristo.

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