Dafne, oltre la disabilità

Federico Bondi parla della sindrome di Down facendoci entrare nel meraviglioso rapporto tra un papà e la figlia. Un mondo in cui la sofferenza lascia il posto allo stupore e alla vitalità

Serve a sgomberare il campo da inutili e dannosi pregiudizi sul tema della disabilità, il bel film Dafne di Federico Bondi, che ha per protagonista una ragazza con la sindrome di Down. Serve a far capire che dietro ogni condizione di diversità c’è una vita che va scoperta, osservata, incontrata per ciò che è, per la sua unicità che può spiazzare e stupire, e allora, solo dopo averla conosciuta approfonditamente, si può formare un pensiero, entrare in un giudizio, in una relazione costruttiva e preziosa con lei. In un rapporto con la persona che va oltre le difficoltà che ogni giorno questa incontra.

Il film Dafne – in uscita oggi, 21 marzo, Giornata Mondiale sulla sindrome di Down – consiglia di non fermarsi davanti alla paura o alla commiserazione della fragilità umana, perché un atteggiamento simile porta solo a una sterile distanza. Sprona invece a entrarci dentro per scoprire molto altro. Ogni vita è diversa da un’altra, dice l’opera seconda del regista toscano (dopo Mar nero del 2009), oltre la condizione in cui una vita si trova, oltre le difficoltà particolari che gli sono capitate.

Cinema: Dafne, trentenne Down piena di giudizio

Dafne, interpretata da un’instancabile Carolina Raspanti, è certamente una ragazza affetta dalla sindrome di Down (che non è una malattia, ma una condizione genetica che accompagna per tutta la vita persone nate con un cromosoma in più), ma è prima di tutto una persona di 35 anni che colpisce per la sua vitalità, per come affronta i problemi, per il mucchio di cose che fa e per la fame di relazioni umane che ha. Per la normalità con cui cade nella sofferenza inevitabile di quella vita che non è tenera con nessuno; per come, addirittura, si prende cura di suo padre (un bravo Antonio Piovanelli) così normale e fragile, dopo che sua moglie è morta e si è trovato solo, affranto, smarrito, profondamente indebolito, accanto a questa figlia pure lei toccata duramente dal lutto. Questa figlia che all’inizio – 35 anni prima – l’uomo fece persino fatica ad accettare, ma che col tempo, giorno dopo giorno, gli ha versato addosso quintali di forza e di energia, fino a farlo ricredere e a insegnargli una valanga di cose, fino a fargli capire quanto fosse inutile e sbagliata la sua paura di avere una figlia con la sindrome di Down: non in regola con una società allora persino meno preparata di oggi alla diversità, che usava termini sbagliati e offensivi per definirla.

Cinema: Dafne, trentenne Down piena di giudizio

C’è un monologo dell’uomo, a un certo punto del racconto, che vale il film: con una donna appena conosciuta dentro il ristorante di un albergo, durante un viaggio a piedi che questo padre e figlia scelgono di affrontare per arrivare sulla tomba della mamma – quando Dafne è già salita in camera per risposare – il padre si confessa alla proprietaria dell’hotel, raccontando quando la figliola nacque. Per tre giorni non andò nemmeno all’ospedale: «Mi chiedevano se fossi contento e rispondevo in due parole». Poi sua moglie gli disse: «Ha il nostro odore, odora come noi». E allora questo padre smarrito cominciò a guardare sua figlia, a osservare quale meraviglia fosse Dafne. L’accolse e cominciò a godersi tutto ciò che fa da 35 anni a questa parte. Con la sua vitalità speciale, universalmente superiore alla norma. «A casa fa tutto lei», spiega il babbo, nonostante lavori alla Coop, nonostante abbia 93 persone che su Facebook le fanno gli auguri per il compleanno, nonostante le sue esigenze e conflitti personali, il suo vorticoso e diretto modo di relazionarsi all’altro.

Bondi iniziò a interessarsi all’argomento quando alla fermata dell’autobus vide una ragazza con la sindrome di Down e suo padre che si tenevano la mano. Poi scoprì Carolina Raspanti sui social e riempì con lei – tantissimo di lei – il personaggio di Dafne, con un approccio di tipo documentario sopra una sceneggiatura di finzione. Il confine tra Carolina e Dafne è sottilissimo, si avverte che la verità speciale della prima nutre e a tratti divora il personaggio, ma questa adesione al reale, questo assecondare ed ascoltare una verità così particolare – che risponde prima di tutto a se stessa – diventa testimonianza e rafforza il tema del film: l’osservare ogni persona per quello che è, sospendere il giudizio per entrare in una relazione e scoprire quanto tutti siamo unici, con le nostre infinite differenze. Questo modo di guardare può costruire ponti di ossigeno e nutrimento, e questo, di importante, raccontano Dafne, Carolina Raspanti e Federico Bondi con il suo secondo film. Che certamente parla della sindrome di Down, ma che attraverso il piccolo ciclone di Dafne/Carolina va persino oltre il tema della disabilità.

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