Daesh, al Nusra e gli altri nemici

Continua il viaggio nella Siria, in particolare nelle comunità cristiane che rischiano l’estinzione. Il bisogno di capire un presente precario, col desiderio di sicurezza e normalità

La suora. Qui a Damasco, come dicevo, siamo alloggiati dalle suore francescane, a Tabbale, nel luogo dove Saulo cadde da cavallo. Uno dei luoghi forse storicamente non certi, ma che indicano con una discreta approssimazione che qui si sono svolti atti fondamentali nella nascita del cristianesimo. Come alla casa di Anania, come alla Porta di Tommaso, come nei vicoli della Città vecchia. Ma oggi la sopravvivenza dei cristiani in queste terre è messa in discussione. Suor Giulia, francescana, mi racconta della sua vita, fino a due anni fa, nella loro casa di Idlib, nel Nord-Ovest del Paese, dove il Daesh era penetrato già nel 2013: «Abbiamo dovuto togliere le croci dal tetto della chiesa – ci dice –, nascondere le statue votive, togliere ogni iscrizione dall’esterno della chiesa, e uscivamo col velo (per noi suore non era però un problema…), ma in chiesa potevamo pregare tranquillamente. Non c’è stata persecuzione dei cristiani, questo posso affermarlo con certezza». La cristianità nella Siria vive tranquillamente, ma anche tra i ribelli e i terroristi il rispetto dei cristiani è una realtà. I problemi spesso vengono dalle spinte radicali di certe frange wahhabiste e salafite di matrice estera.

Turisti per caso. Non ci sono turisti stranieri in città, salvo qualche agente delle Nazioni Unite o di qualche Ong che porta un po’ di sollievo alla popolazione. Il governo ci tiene a mostrare un volto “normale” della città: nelle parole della gente si avverte un bisogno estremo di sicurezza, di rassicurazioni «che lo Stato c’è», come mi dice un giovane sulla trentina che gestisce un bar. Nei cristiani come nei sunniti. Negli alawiti come negli sciiti. Dopo sette anni di pericolo sempre incombente, pericolo mai identificabile chiaramente, perché i colpi di mortaio o dei piccoli missili lanciati dalla Ghouta, cioè dalla regione nella periferia di Damasco occupata dai ribelli, al Nusra in testa, non erano mai prevedibili.

Nel suq. La città oggi è popolata nel suo centro, in particolare nell’immenso suq che si stende attorno alla grande moschea, annunciato da alcune colonne romane ancora erette e fiere. Dieci giorni fa, mi assicurano, tutto era deserto. Solo qualche figura furtiva si aggirava nelle strade del centro. La recente “pulizia” di Douma e il trasferimento dei 4 mila ribelli per Jerablus è stata accolta dalla popolazione della Damasco controllata dal governo siriano come una vera e propria rinascita, come la possibilità di vivere una vita più o meno normale. Negli ultimi mesi, in effetti, sono state colpite varie chiese, come quella adiacente al luogo dove sono alloggiato: un obice ha creato una voragine nel giardino, distruggendo un’auto. Oltre alle ferite, c’è la penuria e la mancanza di manutenzione negli edifici.

Il militare. Prendiamo un caffè in un locale accanto alla moschea. Sul tavolo accanto al nostro ci sono tre militari che, gentilissimi, ci rivolgono parole d’attenzione. Uno di loro parla un po’ di inglese, e risponde a qualche mia sollecitazione, che rende la guerra “vicina”: «È dura vedere morire i propri amici. Nella mia carriera militare, che dura da 7 anni, ne ho viste decine andarsene. Ogni volta mi debbo affidare a Dio, per cercare di ritrovare un po’ di pace e continuare a fare il mio lavoro a servizio del popolo». China la testa, poi riprende: «Soprattutto un paio di anni fa mi sono ritrovato più volte in pericolo, perché la mia postazione di lavoro era a fianco della zona della Ghouta, occupata dai terroristi» (quelli che da noi sono chiamati “ribelli” qui sono da tutti invece definiti “terroristi”, ndr). Il soldato, ancora giovane, avrà la quarantina, mi enumera i morti provocati dai rocket dell’opposizione armata: venti morti qua, cinquanta là, un palazzo distrutto qui, una chiesa colpita là. Mi assicura che nella Ghouta, 400 mila abitanti, solo una parte della popolazione era legata ai ribelli: «Ci sono state scene di giubilo quando la popolazione ha potuto fuggire dall’inferno dei bombardamenti, e ci siamo accorti che buona parte di essi era stata costretta a rimanere sul posto, mentre avrebbe voluto andarsene. La gente è stanca della guerra, vuol continuare a vivere. Noi difendiamo questo popolo: i media stranieri ci chiamano “le bande di Assad”, ma le assicuro che noi siamo l’esercito legittimo di uno Stato sovrano e indipendente. Se oggi cadesse il governo, la Siria scomparirebbe, spartita dai vicini». Gli chiedo se senta delle contraddizioni tra la sua fede e il far parte di un esercito in guerra: «C’è il diritto di difendersi che è normale anche per un credente. L’Islam è religione di misericordia, il cristianesimo è religione di perdono. Confesso che talvolta faccio fatica a conciliare la mia fede e il mio lavoro». Riconciliazione nazionale possibile? «Sarà dura, il sangue è difficile da cancellare. Ma se ci lasceranno cercare la riconciliazione tra noi siriani, senza ingerenze straniere, credo che ritroveremo la capacità di vivere assieme». E conclude in tono scherzoso, se possibile nel contesto bellico attuale: «Comunque, finita la guerra dormirò per sei mesi!».

 

I giovani. Nel nostro giro in città, ci accorgiamo che ci sono pochi giovani in giro senza uniforme. E tante ragazze, invece. Come in ogni guerra i maschi diminuiscono, e le donne fanno fatica a trovare un compagno di vita. In una parrocchia del centro ne incontro alcuni, sono riservisti, cercano di lavorare, o meglio di sbarcare il lunario, come cittadini che cercano di costruire la vita civile e sociale. Uno di loro sta organizzandosi per farsi finanziare un progetto che permetta ai giovani di «raccontare la loro storia di guerra e di pace». Un altro insegna in un paio di scuole medie, mi racconta invece un episodio drammatico: «Una mia allieva è morta due mesi fa a Bab Touma, alla Porta di Damasco. Uno scuolabus è stato centrato da un colpo di mortaio. Una sua compagna è stata amputata dal ginocchio in giù. Il nostro presidente le ha reso visita qualche giorno fa. Per un mese le lezioni sono state sospese, ma ora abbiamo ripreso. Il mio sforzo è quello di cercare di alleviare il senso di dolore, di assurdità che i compagni di scuola hanno accumulato nel loro cuore. Ascolto, riconforto, cerco di far uscire il dolore che serbano nel loro cuore».

 

Il francescano. Padre Bahjat Elia Karakach, francescano della Custodia di Terra Santa, è vicario episcopale di Damasco. Mi riceve dopo una giornata «in cui ho dovuto rispondere a tante telefonate dall’Europa di gente preoccupatissima e da qui di gente che non ce la fa a vivere». Non ha peli sulla lingua: «L’attacco chimico nella Ghouta, al centro della contesa, è un falso bello e buono. Assad non aveva bisogno di usare armi sporche, stava già vincendo su tutto il fronte. All’Onu il rappresentante siriano qualche giorno fa aveva messo in guardia contro un’evenienza del genere, dicendo che erano i ribelli a preparare un attacco del genere per far poi ricadere la colpa sul governo siriano». Padre Bahjat esprime il pensiero della quasi totalità della comunità cristiana siriana: «Se il presidente se ne andasse ora, sarebbe il caos. Lo Stato deve esistere in questo momento altrimenti la Siria non si risolleverà mai. Ma le grandi potenze debbono lasciarci tranquilli, non devono ingerire nei nostri affari interni. Se Assad cadesse, scomparirebbe anche la presenza cristiana in Siria, e poi nei Paesi limitrofi». Numeri? «L’Est ormai è svuotato dai cristiani, restano a Raqqa e Dar el Zor una cinquantina di famiglie appena. Ad Aleppo i cristiani erano 150 mila, sono ormai tra i 30 e i 40 mila. Gli adulti e gli anziani, appena le cose si calmano, vorranno forse ritornare in patria, mentre i giovani non osano farlo, sia perché qui non c’è lavoro, sia perché molti di loro sono quelli under 42 anni renitenti alla leva, e quindi una volta tornati in patria verrebbero subito spediti al fronte. C’è stato pure un periodo, all’inizio della guerra, in cui era diventata un po’ una moda lasciare il Paese. Soprattutto i ricchi. I poveri, invece, sono rimasti». Finirà questa guerra? «Spero che finisca presto, ma non c’è ancora nessuna certezza. Si sta lavorando a una nuova Costituzione, perché Il presidente Assad vuole, e noi con lui, che lo Stato rimanga laico e tutti possano trovare spazio in Siria. Una tale costituzione in questo momento può essere solo “imposta” da un regime forte come quello di Assad. Gli Stati Uniti e i loro alleati ci vogliono invece deboli e divisi, per poterci annullare. La Russia ci sostiene, meno male. Lo confesso: ci sentiamo abbandonati da chi dovrebbe difenderci in Occidente. Quando nel 2011, nelle manifestazioni della cosiddetta primavera araba che poi sfociarono nella guerra civile, uno degli slogan più usati era stato: “I cristiani vadano a Beirut, gli alawiti nella bara”. Dopo 7 anni di guerra quasi tutti i cristiani rimasti in patria sono per il governo attuale, senza dubbio».

 

Riflessione serale. Questo si vede e si dice nella Siria attuale, tra coloro che in Siria ci sono rimasti scegliendo il regime attuale. Queste potrebbero non essere le opinioni di chi invece se ne è andato, o di chi combatte ancora nel 20 per cento di territorio che ancora sfugge al controllo del governo. Val la pena però di ascoltare con attenzione questa “abbondante metà” di Siria: non è ipotizzabile nessuna riconciliazione nazionale senza una partecipazione di tutte le parti e un arretramento delle potenze straniere.

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