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L’equilibrio di una vita

di Lucia Fronza Crepaz

Lucia Fronza Crepaz

«Era un’impresa tenere il ritmo delle nostre età, aspirazioni, energie e sollecitazioni esterne»

Qadir
Qadir – Illustrazione di Marta Signori

Era un venerdì di gennaio, precisamente il 18. I vagoni del treno erano strapieni di studenti che tornavano a casa dall’università: decisi di fermarmi in testa al corridoio, la mia valigia come sedile. Il treno stava per partire ed ecco salire Paolo, con il suo solito allegro sorriso, espressione della sua ottimistica apertura al mondo.

Più tardi ci confesseremo l’un l’altro che entrambi abbiamo avuto in quel momento la certezza che il resto della nostra vita lo avremmo passato insieme. Avevamo già molto in comune: la passione per la medicina, la concreta utopia di vivere per un mondo unito condivisa con molti amici comuni, la curiosità per tutto ciò che ancora non conoscevamo della vita e una abbastanza sperimentata convinzione che è l’Amore che muove le cose.

Da quel giorno demmo vita, con l’obiettivo di sposarci prima possibile, ad un fitto programma di studi per riuscire a laurearci in tempo per la sessione estiva dell’anno dopo: si finiva un esame e si cominciava lo stesso giorno a preparare quello successivo. Il 23 novembre di quell’anno la terra in Irpinia tremò più volte per lunghi interminabili minuti. Le scosse in poche ore devastarono 687 Comuni e provocarono migliaia di vittime.

Al telegiornale delle 20, alcuni giorni dopo, il presidente Pertini lanciò un appello: «Tutti gli italiani e le italiane devono sentirsi mobilitati per andare in aiuto di questi fratelli. Perché, credetemi, il modo migliore per ricordare i morti è quello di pensare ai vivi». Tutte noi 4, amiche, che abitavamo insieme per studio e lavoro, sentimmo rivolte a noi quell’appello; tra il resto cercavano anche studenti degli ultimi anni di medicina per una campagna vaccinale urgente… Decidemmo di partire con una vecchia Fiat 600, i bagagli sul portapacchi, scatole di fagioli e tonno perché occorreva essere autosufficienti.

«Era una ricchezza aver trovato una donna capace di donare il suo tempo, la sua energia, la sua vita per gli altri e questo era un dono, presagio di impegni sempre nuovi e non immaginabili».

Davanti a noi, sotto la neve, come un novello giovane di Tienanmen, Paolo cercava di spiegarmi che partire non aveva senso nella nostra condizione: «E i progetti pensati assieme? E la data della laurea? E quella del matrimonio?». Per poi concludere: «Non è così che immagino la nostra vita insieme! Se parti, ti lascio». Ma io ero decisa. E cocciuta come sempre. Partimmo.

L’esperienza fu molto forte e coinvolgente. Il cibo era scarso e sempre uguale, il freddo delle notti nei bungalow era pungente, la paura delle scosse continua, il lavoro stressante… Ma molto di più era forte il legame motivante tra noi e soprattutto la condivisione con quei fratelli e quelle sorelle, anziani, tanti bambini, che, con il loro calore sempre acceso nonostante tutto, ci ricambiavano con un amore inaspettato.

6 febraio 2022: Lucia Fronza e Paolo Crepaz festeggiano il quarantesimo di matrimonio.

Intanto con Paolo, con cautela e non senza difficoltà, avevamo ricominciato a sentirci per telefono (non esistevano i cellulari) per ricostruire il nostro legame, cercando di comprendere reciprocamente le nostre ragioni. Alla fine, per entrambi fu una vera conversione. In me nacque la consapevolezza che avevo bisogno di acquisire un nuovo modo di affrontare le cose: avrei dovuto imparare pian piano che un progetto di vita insieme presuppone che anche le… impennate di generosità andavano declinate con il “noi”. Questo non avrebbe ammazzato la fantasia del donare, ma l’avrebbe potenziata, dandole solidità e durata.

Paolo mi scrisse che, dopo la messa di mezzanotte a cui aveva partecipato da solo, aveva capito che «era una ricchezza aver trovato una donna capace di donare il suo tempo, la sua energia, la sua vita per gli altri e questo era un dono, presagio di impegni sempre nuovi e inimmaginabili».

Quell’esperienza è stata ed è fondamento a cui tornare molte volte per prendere coraggio e ispirazione. Mai avremmo immaginato cosa ci riservava il futuro… La laurea, il matrimonio, il lavoro, le notti di guardia medica, il reparto, gli studi per la specializzazione… E poi il primo, la seconda ed il terzo figlio, si susseguirono a ritmo incalzante…

Un ricordo di quel tempo? Un sonno irriducibile, sempre sovrastante. Le nostre famiglie di origine, ognuna ben configurata nelle proprie abitudini e nelle proprie convinzioni e a distanza abissale tra loro, si sentivano profondamente implicate nella programmazione del nostro menage e delle nostre decisioni.

La nostra vita insieme rischiava spesso piccoli e grandi scossoni. Adottammo una strategia, forse un po’ complessa, ma funzionale: dialogare fitto tra noi per capire cosa fare e poi comunicare alle famiglie tramite parole condivise tra noi, imparate quasi a memoria. Di comunicazione in comunicazione, ci trovammo tra le mani un progetto di vita nuovo rispetto alle due famiglie, una nuova realtà, con radici diverse, ma autonoma.

Era poi davvero un’impresa tenere il ritmo delle nostre età, delle nostre aspirazioni, delle nostre energie e delle sollecitazioni che ricevevamo da tutti gli ambienti in cui eravamo impegnati. Come quel giorno che chiesero inaspettatamente a me di accettare la candidatura per le elezioni politiche nazionali. Quella sera, come ogni lunedì, Paolo era nella comunità del focolare, fonte sia per lui che per me di coraggio evangelico. Io a casa con i tre cuccioli, ricevetti la telefonata: era il segretario del partito dove ero iscritta che mi chiedeva di entrare nella lista per ottemperare all’opportunità (sic!) di avere almeno una donna nel la lista. Risposi di no, senza alcun dubbio: non c’era davvero posto anche per questo impegno, ma lui insistette di attendere fino alla mattina dopo per ribadire l’eventuale, definitivo, no.

Paolo al ritorno rimase come me sorpreso, ma poi non ebbe dubbi: «Ti ricordi quel sì che ci siamo scambiati quel 6 febbraio di 5 anni fa? Avevamo voluto che comprendesse tutta l’umanità, che fosse aperto alla vita, a tutto quanto contiene. Così abbiamo affrontato tutto insieme fino ad oggi: ed anche oggi non possiamo tirarci indietro». In effetti, di apertura in apertura, ci eravamo trovati a dire sempre di sì ad ogni sfida e sentivamo che era giusto così: osare per prenderci cura di chi e di ciò che ci circondava.

Paolo si prese un mese di aspettativa e cominciammo la campagna elettorale insieme. La dimensione famigliare, da quella scelta fatta insieme fu costantemente presente durante tutto il mio impegno politico e mi aiutò a non staccarmi mai dalla realtà della cura delle persone, dalla vita reale delle persone che vivono sul territorio.

Quell’“intelligenza famigliare” (quella che si impara nel curare tutti gli aspetti della vita dei propri famigliari) fu nel mio/nostro mandato davvero una “parola politica”. Insomma, in fin dei conti scoprii, scoprimmo insieme, che fare politica voleva dire mettere amore, amare nell’impegno pubblico come in quello privato. Quello stesso amore, che aveva illuminato la nostra vita personale, familiare e sociale, aveva anche un’altra dimensione: anche agire in politica era una questione d’amore.

Dei tanti possibili episodi, ne ricordo due in particolare. Eravamo in campagna elettorale, il mio partito era in subbuglio, nessuno si aspettava che io prendessi sul serio la candidatura e così cominciarono gli attacchi nei miei confronti durante gli incontri con gli elettori. Un giorno si alza un signore distinto che, in tono provocatorio, mi chiede: «Come farà con tre figli? Saranno abbandonati, oppure non andrà in Parlamento… Insomma, come pensa di conciliare famiglia e mandato?».

Paolo mi seguiva in ogni comizio, si metteva in fondo e prendeva appunti, stando sempre a giro di occhiata con me. Tornati a casa, mi aiutava a creare sempre il nuovo, a non sedermi mai. Dopo quella domanda, mentre io cercavo di raccogliere i pensieri per rispondere al meglio, si alzò e prese lui la parola: «Il segreto della sua conciliazione sarò io. Io sarò più a casa, non farò il mammo, farò il papà e lei farà la mamma e insieme spiegheremo ai nostri figli quanto sia importante che lei si impegni a fondo per il bene comune». Scrosciò un applauso: quella risposta fu la miglior garanzia di voto.

Di ritorno dalla prima settimana a Roma telefonai a Paolo per comunicargli che avrei cercato il tempo per comprare un dono per ciascuno dei bimbi, per far loro capire che non li avevo dimenticati durante quei giorni. Lui, sicuro, mi suggerì: «Lascia stare: il miglior dono sarai tu che racconterai, a ciascuno come lo potrà capire, il tuo impegno. I regali sarebbero un’assurda dimostrazione del fatto che ti senti in colpa. E questo non lo devi minimamente sentire: sei lì perché insieme, come famiglia, lo abbiamo deciso e ci va bene così. Sei la rappresentante del nostro impegno collettivo! Torna presto!».

«Man mano che i figli crescevano, eravamo sempre meno convinti che ci fosse una tesi educativa che reggesse ogni situazione. Il modo migliore di accompagnare i nostri figli era lo stesso che Dio applicava con noi: uno spazio aperto e pieno di misericordia che ci permetteva ogni giorno di ricominciare».

Ogni sera alla fine dei miei impegni, anche se a volte a notte fonda, ci sentivamo al telefono (comprammo per questo il primo cellulare in commercio) per aggiornarci e non perdere la sintonia, discutendo di tutto: dal pianto di un bimbo al saggio di quello più grande, fino alle scelte di coscienza che mi toccavano di volta in volta.

Altro sterminato campo di dialogo tra noi fu quello dell’educazione dei figli. Eravamo partiti, come tanti di noi genitori, cercando sempre di trovare una soluzione unica, condivisa, mai farsi trovare in fallo, spalleggiarci a vicenda e fare fronte unito per dare sicurezza a loro. E a noi stessi… Ma devo dire che man mano che i figli crescevano, eravamo sempre meno convinti che ci fosse una tesi educativa che reggesse ogni situazione.

Cominciava a farsi spazio dentro di noi la convinzione che il modo migliore di accompagnare i nostri figli e i giovani che ci giravano intorno per i vari impegni di vita, fosse lo stesso che, sentivamo, applicava Dio con noi: uno spazio aperto e pieno di misericordia che ci consentiva ogni giorno, perfino ogni momento, di ricominciare. Era l’unica strategia che ci permetteva di non dire mai sentenze definitive, di non perdere mai la speranza, né noi, né loro.

Abbiamo imparato, alla luce di questa convinzione, che i nostri figli, tanto da adolescenti quanto da adulti, non avevano bisogno di un’unica parola che di fronte a problemi complessi costringesse me e Paolo ad una sintesi spesso artificiale, ma avevano bisogno di noi che, assieme a loro, tenevamo aperto il dialogo, interrogandoci liberamente.

Questo (a volte difficile!) esercizio di dialogo tra noi ha donato anche ai figli uno spazio libero, di ascolto, a volte anche di tensione, dove crescere nella consapevolezza delle propria opinione e della responsabilità di una decisione che tenga conto della libertà propria e altrui. Per noi è stato un luogo dove riscoprire lo stupore della nostra diversità, quella che ci aveva fatto, tanti anni fa, innamorare.

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