Da Monteverdi a Kurt Weill

Roma, Accademia Filarmonica Romana e Teatro Nazionale. Quando Orfeo, all’annuncio della scomparsa di Euridice, prorompe nel lamento Tu sei morta mia vita, noi sentiamo distendersi in una modulazione nitidissima un dolore inenarrabile. Esso non ha bisogno di esplosioni romantiche o di turgori wagneriani: nella sobrietà, la parola è canto, grave e puro come un’architettura classica. È la semplicità: il sentimento doloroso si esprime al completo nella musica che è la parola, disegnata con una misura emotiva che la successiva storia dell’opera ora dimenticherà ora ritroverà. Questo è lo stile dell’Orfeo di Claudio Monteverdi, la prima opera, nata a Mantova presso i Gonzaga, 400 anni fa. Nel prologo e nei cinque brevi atti di Alessandro Striglio si narra la vicenda del cantore che perde, ritrova, e riperde la sua Euridice.Ma finirà assunto nell’Olimpo, premiato per l’amore fedele. Monteverdi riecheggia la sensibilità rinascimentale dell’Orfeo di Poliziano o dell’Aminta del Tasso, ma con una lettura di passione trattenuta già prebarocca che i disegni del canto recitato, le fioriture della piccola orchestra di legni, archi, cembalo e liuti accentuano con grazia madrigalesca. Così i recitativi pieni di pathos e di melodia composta – che riprenderanno vita nel romantico Bellini – compensano le sottolineature ardenti degli strumenti, e gli interventi del canto – assoli, duetti terzetti – vivono i personaggi con una architettura polifonica che commuove. Qui si è alla concezione della poetica degli affetti vista come armonia tra senso e intelletto. Orfeo diventa allora modello di un’arte che recupera il valore musicale della parola, e parla dell’animo umano nelle sue varietà sentimentali con un equilibrio difficile da dimenticare. Il Concerto Italiano, guidato dall’infaticabile Rinaldo Alessandrini, insieme ad interpreti esperimentati, l’ha resuscitato per noi, aprendo alla giovinezza bella di una musica che non invecchia. Dove sia arrivata l’opera a metà Novecento lo dice Marie Galante di Kurt Weill, anno 1934, lavoro a suo tempo sfortunato, che narra della prostituta dal cuore gentile, vittima della cattiveria umana. Weill fra il singspiel e il musical sfoga la vena melodica in canzoni belle e orecchiabili, in ritmi popolari danzati, con un occhio innovativo ai colori orchestrali, mai facili, ma suggestivi. Certo Marie Galante esige un’interprete che sappia cantare e recitare con mimica fresca e voce ampia, passando dal sentimentale al languido all’implorante al furbetto. Registri differenti che esigono vivacità intellettuale, oltretutto, perché la musica di Weill non è facile, stretta com’è in una miscela di passato presente e avvenire. Il che evidenzia lo stato dell’opera nel Novecento, dissociata fra tradizione e sperimentalismo. Ma Chiara Muti s’è rivelata capace di padroneggiare canto e scena, insieme ad un cast di tutto rispetto e alla direzione orchestrale vivace di Vittorio Parisi. Cosi i dieci tableaux di Jacques Deval, musicati da Weill sono riapparsi alla memoria, con una sensibilità, frammentaria, nostalgicamente amante della unione parola-suono che è l’anima dell’opera.

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