Costruire ponti e non muri, a partire da Baghdad

Intervista ad Alfio Nicotra, presidente dell’associazione di volontariato “Un ponte per…” sul senso di un percorso nato nel 1991 durante la prima guerra del Golfo. L’alleanza con la sorprendete società civile irachena dentro i conflitti sociali e la scelta della nonviolenza

Fuori da ogni retorica ed emozione relegata ai social media, c’è qualcuno, come l’associazione Un ponte per…, che i muri cerca di abbatterli per costruire ponti fin dal 1991, durante la prima guerra del Golfo che radunò una coalizione di 35 Stati contro l’Iraq di Saddam Hussein.

Si tratta di una realtà nata in Italia grazie anche al sostegno di padre Ernesto Balducci. Come disse il noto esponente, assieme a don Milani e La Pira, di una stagione d’avanguardia della Chiesa di Firenze, «per il popolo iracheno la vittoria che i Paesi della coalizione stanno celebrando ha significato rovina e morte», ma chi pensa alla «multiforme miseria fisica e morale che la terribile guerra tecnologica ha lasciato in eredità a un popolo incolpevole»? Da quell’appello, che portò in un primo tempo alla raccolta di materiale didattico e fondi per la potabilizzazione dell’acqua, è iniziato un percorso che, in oltre 25 anni, ha coinvolto non solo altri Paesi del Medio Oriente e del Mediterraneo, ma anche la Serbia e il Kosovo.

Recentemente una delegazione dell’associazione si è recata in Iraq per partecipare a una conferenza internazionale promossa dalla rete delle organizzazione della società civile irachena (Iraqi Civil Society Solidarity Initiative). Un fatto sorprendete per coloro che associano quell’aera geografica solo alle notizie frammentate di un conflitto sconosciuto. Per questo motivo abbiamo intervistato Alfio Nicotra, attuale presidente di “Un ponte per…”

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Siete stati da poco in Iraq per un grande convegno della società civile di quel Paese che è all’origine della vostra storia (nome originale “Un ponte per Baghdad”). A quando risale la tua ultima visita in quell’antica e leggendaria città?
La precedente visita a Baghdad era avvenuta nel luglio 2003 con una delegazione del movimento pacifista italiano. Rileggendo gli appunti di allora, diventati poi un reportage pubblicato da Liberazione, quello era un Iraq dove tutto era possibile, talmente il vuoto di potere apriva ad esiti diversi. Ricordo chiaramente come sul piedistallo della statua del rais abbattuta in diretta televisiva mondiale qualcuno aveva scritto: «All done, go home». Avete fatto, ora tornate a casa. Invece l’occupazione americana ha preferito demolire ogni entità statale, cercando d’imporre governi fantoccio, assecondando le vendette settarie, concentrandosi unicamente nel controllo dei pozzi di petrolio e nella ricerca degli uomini di Saddam.

Che spazio poteva avere in quel momento la società civile locale?
La società civile irachena è stata messa a tacere per anni, chiusa nella morsa delle forze di occupazione da un lato e della violenza settaria in cui è stato fatto precipitare l’Iraq dall’altro. Come ricordi correttamente, noi siamo nati nel 1991 con la prima guerra del Golfo, quella di Bush padre e dall’Iraq non ce ne siamo mai andati. Sotto le bombe “intelligenti” ma anche insieme al popolo iracheno che, con un embargo criminale, ha subito sulla sua pelle una crudeltà senza precedenti. C’è un filo conduttore che ci unisce con quegli anni e che ci ha legittimato nella società civile irachena: l’essere sempre stati dalla parte delle vittime della guerra.

Ci siete stati sotto diversi regimi politici…
Esatto. Sotto Saddam o sotto l’occupazione americana, gli iracheni sapevano che noi c’eravamo e ci saremo sempre stati. Anche quando abbiamo dovuto subire il rapimento di due nostre cooperanti – Simona Pari e Simona Torretta – o quando molti nostri attivisti iracheni sono saltati sulle mine o uccisi in bombardamenti “alleati” o guidati dalla ferocia di Daesh (Isis).  La lunga marcia che abbiamo fatto con la società civile irachena nasce dal fatto che siamo stati come loro, condividendo anche le sofferenze e i momenti di sconforto.

Paradossalmente non si può dire che oggi l’esistenza del mondo associativo sia assicurata da un potere che discende da quell’intervento militare che avete criticato. Non esiste una contraddizione?
No, il diritto di organizzarsi in sindacati, di portare avanti campagne come quella per il diritto alla salute, delle donne e all’acqua non è stato un regalo delle forze di occupazione Usa, ma una conquista strappata dopo tante lotte contro governi servi dell’occupante di turno. Basta vedere quello che avviene nelle piattaforme petrolifere tornate a pompare l’oro nero a pieno regime e controllate dalle multinazionali.

Cosa è accaduto intorno a quei pozzi petroliferi?
Ci sono state manifestazioni grandiose, scioperi di massa, picchetti durissimi per far rispettare i diritti dei lavoratori e delle lavoratrici. Le multinazionali, che portano avanti un’occupazione con mezzi diversi, non hanno esitato a usare la forza e a sparare sulle quelle manifestazioni. Stare con quelle manifestazioni ed essere stati contro la guerra ti sembra una contraddizione? A me sembra il proseguimento di quella stessa lotta.

Avete usato metodi nonviolenti schierandovi dalla parte delle vittime. E tuttavia la vicenda di “Orso” (Lorenzo Orsetti), il giovane volontario fiorentino morto lo scorso 18 marzo sul fronte siriano a sostegno della causa curda, ha messo in evidenza, secondo alcuni, la necessità di scegliere la resistenza armata in certi casi. Così come è avvenuto con la lotta di Liberazione in Italia. È una visione che condividi?
Lorenzo Orsetti era un giovane anarchico che ha sentito come la lotta del popolo curdo e contro l’oscurantismo di Daesh riguardasse anche noi. E cioè che erano in gioco i valori della democrazia, dei diritti umani, della libertà dei popoli e che non se la sentiva di stare con le mani in mano. Personalmente ho il massimo rispetto per questa sua scelta compiuta in una società in cui l’indifferenza verso il prossimo e gli oppressi, sembra farla da padrone. Da pacifista e da internazionalista penso che il sostegno alla causa curda possa avvenire in altro modo, senza la necessità di impugnare le armi.

Anche voi siete nel Kurdistan siriano, come agite?
Noi siamo in Roijava con la Mezzaluna Rossa curdosiriana, a costruire il sistema sanitario pubblico. Lavoriamo con i comuni di quella regione per gemellarli con quelli italiani e contribuiamo alla costruzione di un sistema cooperativo sociale in grado di dare risposte alla popolazione in difficoltà e ai tantissimi sfollati interni. Non faccio a gara tra il nostro modo di solidarizzare e quello di “Orso”. Nel fine non sono in contrapposizione. Rimane una discussione sui mezzi che noi vorremmo iscrivere con chiarezza alla forza rivoluzionaria della nonviolenza.

 

 

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