Corridoi umanitari di ritorno

Cresce il numero dei respingimenti di migranti. Una proposta concreta davanti agli episodi tragici come il suicidio dei giovani Prince Jerry e  Amadou Jawo
ANSA/LUCA ZENNARO

Il quarto caso di suicidio di un giovane migrante nel giro di pochi mesi ci impone di condividere un travaglio che ci angoscia: possiamo restare indifferenti di fronte a ragazzi come i nostri, venuti qui a prezzo di enormi sacrifici, che nel fiore degli anni decidono di farla finita? Possiamo chiamare accoglienza un sistema che sembra esprimere una disumana indifferenza verso la disperazione di queste creature?

Lunedì 28 gennaio, Prince Jerry, nigeriano di 25 anni, laureato in chimica, si è tolto la vita gettandosi sotto un treno a Tortona, dopo che gli era stata respinta la domanda di asilo qui in Italia. Una domanda che, come è ormai di prassi, è stata esaminata dopo più di due anni di permanenza del migrante in centri di accoglienza. Nel frattempo il giovane, di spiccata intelligenza, aveva compiuto un ottimo percorso di integrazione, aveva appreso molto bene l’italiano, prestava opera come volontario presso la Comunità di sant’Egidio e faceva da tramite per molti richiedenti asilo giunti dopo di lui. Stava studiando per farsi riconoscere qui in Italia la laurea presa in Nigeria.

Altro caso emblematico quello di Amadou Jawo, gambiano di 22 anni, impiccatosi vicino a Taranto lo scorso 15 ottobre, dopo il respingimento della domanda di asilo. «Desiderava tornare in Africa, ma temeva di essere additato come fallito. Ha pensato di non avere scelta».

Momento drammatico quello del respingimento: questi ragazzi hanno spesso alle spalle un tragitto di sofferenze disumane, traversate del deserto, mesi o anni di inferno in Libia, e prima ancora gli enormi sacrifici che le misere famiglie di origine hanno dovuto sopportare per sostenere gli elevatissimi costi del “viaggio della speranza”. Dopo il loro arrivo qui vengono tenuti per due anni in attesa di essere esaminati dalla commissione territoriale competente, poi attendono altri mesi prima di conoscere l’esito della loro domanda… quando questo calvario psicologico si conclude con il respingimento ci vuole un carattere di acciaio per non accusare il colpo. Possono fare ricorso, allungandosi un altro po’ la permanenza qui, ma il giorno fatidico della “morte civile” è solo rimandato di qualche mese.

Morte civile: non hanno più diritto a cibo, alloggio, non hanno più documenti, diventa loro impossibile accedere a qualsiasi lavoro normale. Devono sparire. Il futuro qui consente solo clandestinità e illegalità. Chi li aiutasse può essere denunciato per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.

Stupisce che si parli così tanto di migranti e non si senta quasi mai considerare la difficoltà disperante di questi rifiutati, di questi “scartati” dalla nostra umanità. Come se, una volta ricevuto il decreto di respingimento, venissero cancellati dai nostri schermi. Anche le recenti cronache del tanto mediatizzato sgombero del Cara di Castelnuovo non hanno detto una parola sulla fine di quei richiedenti asilo che, avendo perso la protezione umanitaria, sono semplicemente stati messi fuori da quell’accoglienza, scaricati da qualche parte senza indicazioni o risorse per sopravvivere. Nel gelo dell’inverno.

Chi abbia contatto con gli sguardi di queste persone respinte, lontane dalla propria terra e dalla propria famiglia, senza più spiragli per il futuro, con il buio davanti agli occhi, comprende bene come possano pensare di farla finita.

Considerando ciò che accade a questi ragazzi, nell’indifferenza dei più, vengono alla mente le parole lapidarie di Primo Levi, richiamate in altro contesto pochi giorni fa: «Voi che vivete sicuri nelle vostre tiepide case, voi che trovate tornando a sera il cibo caldo e visi amici: considerate se questo è un uomo».

I casi di questo genere sono destinati ad aumentare nel breve termine. Erano arrivati in tanti negli anni passati ed ora i respingimenti si stanno intensificando, con un alto incremento in percentuale sul numero delle domande, determinato anche dall’abolizione della protezione umanitaria.

Ricevono un’ingiunzione in cui si chiede loro di lasciare il nostro Paese entro 30 giorni, ma sappiamo bene quanto sia difficile che questo avvenga. Ci sono quelli, la maggior parte, che si rassegnano alla clandestinità, a vivere di espedienti, alla criminalità, o decidono di fuggire in un’altra nazione… ma coloro che avevano pensato ad una vita e ad un lavoro regolari, facendo ogni sacrificio per raggiungerli, e che il nostro mondo “civile” ha decretato come fuorilegge, possono non avere scampo.

L’unica possibilità per restare legali, per non diventare dei “morti civili”, è in effetti quella di tornare al loro Paese di origine. È questo, del resto, che richiede il decreto di respingimento. A questo riguardo va preso atto che i Governi già da anni hanno avviato l’iniziativa dei “rimpatri volontari assistiti”, che prevedono un affiancamento e anche un piccolo supporto economico per coloro che si disponessero a tornare, compreso un aiuto per iniziare un’attività in loco. Ma per la più parte di essi non è sopportabile pensare ad un ritorno a casa da falliti, senza nulla o quasi, dopo gli enormi sacrifici che la loro partenza aveva richiesto.

  Una proposta

“Corridoi umanitari di ritorno”, forse questa potrebbe essere una via. Come si attivano corridoi umanitari verso di noi per salvare vite minacciate dalle guerre, analogamente si dovrebbero accompagnare ad un ritorno dignitoso quanti rischiano di soccombere qui. Sono nostri fratelli come quelli che rischiano la vita sotto le bombe in Siria.

L’iniziativa di questi corridoi di ritorno potrebbe integrarsi agevolmente con la normativa dei rimpatri assistiti. Ma vi è una condizione essenziale per rendere concretamente sostenibile il rientro a casa di queste persone: la possibilità di portare con sé una somma significativa, che dia modo di arrivare dai propri cari non a mani vuote. Queste persone potrebbero riuscire ad accettare il fallimento della migrazione se potessero portare con sé un aiuto che compensasse i sacrifici sostenuti dai propri famigliari e offrisse un significativo supporto alla ripresa della vita laggiù.

Che questa non sia un’idea forzata lo dimostra il fatto che le risorse ci sono. Ricordiamo bene la proposta che fece l’Unione Europea lo scorso agosto: per ognuno dei migranti sbarcati che l’Italia si fosse tenuto avrebbe ricevuto la somma di 6.200 € (proposta che il Governo italiano non accettò). Siamo convinti che con una somma del genere, che nei paesi di origine ha un valore almeno decuplicato, un buon numero di migranti non più regolari se la sentirebbe di rientrare.

Nel caso prima citato di Jawo, morto vicino a Taranto, abbiamo assistito al paradosso che, dopo la tragedia, conoscendo il suo desiderio di tornare in Gambia, molte persone generose hanno raccolto la somma di 6.000 € per rendere possibile il rimpatrio della salma.

Una somma del genere (che non sarebbe sbagliato vedere come parziale restituzione del tanto che noi occidentali abbiamo prelevato e preleviamo da quei Paesi) potrebbe incoraggiare molti a rientrare, evitando di vederli andare ad aumentare il numero dei clandestini, con tutte le conseguenze e anche i costi che inevitabilmente ricadono sulla nostra collettività. Senza dimenticare che, una volta rientrati, essi stessi contribuirebbero, con la testimonianza delle traversie passate, a scoraggiare i loro conterranei che avessero in animo di partire a loro volta.

L’attuazione di questa proposta richiede naturalmente una volontà politica, quella che auspichiamo mettano in atto i nostri rappresentanti di fronte a questi drammi.

Ma possono prenderla in considerazione anche le numerose realtà della società civile che già tanto stanno facendo in questo ambito, in modo particolare quelle che hanno già in atto l’iniziativa dei corridoi umanitari.

Nel frattempo suggeriamo un’attenzione che andrebbe attuata subito, per prevenire l’impatto traumatico che subiscono questi giovani al momento del respingimento: a ciascuno di coloro che sono in attesa della convocazione presso la Commissione territoriale venga fornito dagli organi preposti, con largo anticipo, un foglio contenente recapiti, contatti, indicazioni di enti incaricati a cui rivolgersi nel momento in cui la domanda di asilo venisse respinta.

Quel foglio, qualora la nostra suddetta proposta avesse trovato modalità di attuazione, potrebbe contenere anche le istruzioni per accedere ai “corridoi umanitari di ritorno”.

 

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