Coronavirus, 40 giorni in ospedale

Egidio Zoni, 67 anni, pensionato di Manerbio, in provincia di Brescia, si ammala di coronavirus e trascorre 40 giorni in ospedale in vari reparti subintensivi dove nascono nuove e durature amicizie. Il suo racconto.

I prodromi della mia lunga avventura di 40 giorni di ricovero in ospedale cominciano con una settimana di febbriciattola a casa e una cura a base di antibiotico. La febbre ha iniziato ad alzarsi significativamente fino ad arrivare a 38-39 gradi. D’accordo con la nostra dottoressa, mia moglie ed io ci siamo recati presso il Pronto soccorso della Poliambulanza in città a Brescia. Appena arrivato mi hanno sottoposto a una Tac, nella quale si evidenziava la polmonite bilaterale da coronavirus con interessamento dei polmoni al 50%. Era chiaro che io mi sarei fermato per sottopormi alle cure del caso e mia moglie avrebbe dovuto lasciarmi e ritornare a casa da sola. Ci siamo salutati con in cuore quella sensazione (non espressa) che non sapevamo se ci saremmo potuti rivedere, ma assicurandoci che ci saremmo sostenuti con la preghiera. Erano le 12 e 30 di notte, quando mi hanno portato in un luogo che chiamavano “Acquario”. Era una stanza con 10 posti letto che in seguito ho capito essere un’anticamera in attesa che si liberassero dei posti nei reparti. Non sapevo cosa mi aspettasse, per cui mi sono affidato totalmente a Gesù, offrendogli ogni mia preoccupazione e mettendomi in atteggiamento di vivere nel migliore dei modi ogni cosa che mi fosse successa.

La signora Marta

La seconda sera viene portata una signora accanto al mio letto. Avrà avuto circa 75 anni. Era avvolta con la coperta termica e come tutti noi indossava la mascherina. Appena arrivata, chiedo alla Madonna se io potrò mai fare qualche cosa per lei. Da subito colgo nella signora un forte disagio, una irrequietezza, una agitazione. Cerca di togliersi la mascherina, prende la coperta termica e la vuole strappare. Richiamo subito l’attenzione degli infermieri che vengono e con molta tranquillità le rimettono a posto la mascherina e la ricoprono bene con la coperta termica. La cosa dura il tempo che gli infermieri tornano alla loro postazione. La signora si è già tolta la mascherina e si stava strappando la coperta di dosso. Allora richiamo gli infermieri che con molta pazienza cercano di convincere la signora a rilassarsi e addormentarsi. Dopo due ore di questo andirivieni, la signora era veramente nervosa ed arrabbiata. Allora dico agli infermieri di non mettere più alla signora la coperta termica, ma di coprirla con la sua vestaglia che aveva in fondo al letto. Parlano tra di loro, e decidono di provare, tolgono la coperta e le fanno vedere che la mettono via, la coprono con la sua vestaglia, le sistemano sul viso la mascherina e se ne vanno, ma la osservano da lontano. La signora, che nel frattempo abbiamo saputo si chiamasse Marta, si stava rilassando, e poco dopo si è addormentata con la sua mascherina sul volto.

Egidio Zoni, con la maglia nera, in ospedale
Egidio Zoni, con la maglia nera, in ospedale

Esito incerto

Il mattino seguente mi sveglio e sento uno strano suono che viene dalla signora Marta, era monitorata e il suo battito era amplificato dal computer, si sentiva un battito e dopo un po’ di tempo se ne sentiva un altro, ma molto distante l’uno dall’altro. Lo sguardo che mi ha dato l’infermiere è stato chiarificante. La signora Marta stava vivendo i suoi ultimi momenti di vita, o per lo meno era quello che si percepiva. Così mi sono ricordato di quello che papa Francesco aveva detto alcuni giorni prima, se ci fossimo trovati di fronte a questi momenti avremmo potuto pregare per la loro anima. Così apro il cellulare e cerco le preghiere che andavano recitate in questi momenti. Dopo circa un’oretta, mi spostano lontano dalla signora Marta e mettono al mio posto un signore che capisco essere suo marito, il quale dopo essere stato aggiornato della salute della moglie, sento che si mette a piangere chiamandola. Quasi subito mi vengono a prendere e mi portano in reparto. Non ho saputo più nulla di cosa sia successo alla signora Marta e a suo marito.

Giampietro, l’orso buono

Inizio una nuova avventura che mi porterà a cambiare 5 reparti, nei quali conosco diverse persone. Conosco Giampietro, con il quale si instaura un rapporto particolare. Lui è un orso buono, grande e grosso, ma subito ci accordiamo per la gestione della tv, io guardo la messa al mattino alle 7, quella di papa Francesco, e alla sera alle 18 il rosario di Lourdes e lui la guarda il resto della giornata. Dopo tre giorni torno a casa, ma subito rientro in ospedale per gravi problemi respiratori. Con Giampietro, ci trasferiscono in tempi diversi all’ospedale di Pontevico. Appena arrivato, lo vado a trovare e lui è molto contento di vedermi. Mi racconta che alcune notti mi chiamava. Il giorno dopo un’infermiera mi porta un caffè dicendomi che me lo mandava Giampietro. Ero commosso, potendo camminare, sono andato a trovarlo ogni mattina e ogni pomeriggio. Mi diceva che non riusciva a sentirsi meglio, ma forse quella notte gli avrebbero dato delle pastiglie per poter dormire. Il mattino seguente lo vado a trovare e con mia sorpresa non trovo il suo letto, mi informo e il silenzio che ne segue mi fa capire che Giampietro non c’è più: è morto. Rimango senza parole, ritorno al mio letto e chiamo mia moglie e mi metto a piangere. Non capivo come mai Gesù me lo aveva affidato e ora me lo aveva tolto così. Poi verso sera ho capito che noi siamo tutti di Gesù, anche se viviamo momenti di condivisione, siamo sempre suoi.

Renato, un nuovo amico

Qualche giorno dopo arriva Renato, un signore di 74 anni, da 40 giorni ricoverato e molto debilitato, non ha forza nelle gambe ed è molto agitato. La notte è un disastro, essendo sordo parla ad alta voce e non riesce a dormire. Ha poca sensibilità alle mani, così gli cascano spesso le cose in terra, ed io le raccolgo. Vuole telefonare ma non riesce e si arrabbia spesso, vorrebbe andare in bagno ma gli mettono il pannolone. Cerco di interpretare i suoi bisogni e comunicarli agli infermieri e ai medici. Dopo qualche giorno cerchiamo di cambiare il cellulare con il figlio e acquistarne uno più semplice. La preghiera del mattino e il rosario della sera rimangono per entrambi momenti significativi della giornata. Pian piano riusciamo a far mettere Renato sulla carrozzina, e con quella si può muovere un pochino. Dopo 40 giorni di ospedale arriva il mio momento: torno a casa. Renato mi manifesta il suo dispiacere, così come la moglie e il figlio, ma nello stesso tempo la gioia per la mia partenza. Rimaniamo in contatto telefonico. Dopo 14 giorni è uscito anche lui dall’ospedale. Inizierà la sua riabilitazione, e siamo d’accordo che, quando sarà possibile e saremo entrambi guariti bene, ci troveremo a casa sua per festeggiare la nostra bella amicizia che questo video girato insieme in ospedale documenta.

 

Tutti i giorni sento per telefono tanti amici che ho conosciuto in ospedale: Giuliano, Riccardo, Renato. Ci facciamo coraggio a vicenda. Giampietro l’ho affidato a Dio e so che riposa tra le sue braccia.

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