Conversando con Michel Pochet

Il “Centro Maria” a Grottaferrata, sui colli romani, quasi nascosto, sembra una casa tranquilla. Ma entrando, ti investe un senso di vitalità dai busti di marmo e di legno, dalle tele grandi e piccole, dagli arazzi, dai libri, dai video” Un mondo, complesso, ma ordinato, armonico. C’è pace non appena con Michel si inizia una conversazione, partendo da un punto qualsiasi, che si arricchisce di riflessioni, di intuizioni, di scambi. Ricorrenti in questa casa dove artisti giovani e no, arrivati da ogni dove, si incontrano spesso, per una coinvolgente comunicazione di esperienze e di progetti culturali. Ritorna nelle tue opere la figura di Cristo. C’è un motivo particolare? “È vero che mi ha sempre affascinato il volto di questo uomo che era anche Dio, o se preferisci il volto di questo Dio che era uomo. L’equilibrio del divino e dell’umano, del sacro e del profano, del sublime e del banale rappresenta per me una sfida sempre nuova, sempre pericolosa, ma alla quale non voglio sottrarmi. “Qualche anno fa, in Croazia, mentre mi trovavo in un momento di assoluta sterilità artistica, un amico voleva a tutti costi farmi dipingere di nuovo. Non ero nella condizione mentale favorevole, e, per via della guerra, mancava il materiale. Ho trovato un vecchio lenzuolo consumato, bucato, sbrindellato, da buttare. “Guardavo con angoscia il relitto che si sfilacciava, e mi venne in mente Gesù Abbandonato. Anche lui si sfilacciava. Consummatum est. Abbozzai il gran viso di un uomo dei dolori, incoronato di spine, sanguinante. Ma, con stupore, mi accorsi che non stavo dipingendo l’Abbandonato, ma il Risorto. Due icone opposte unificate. “Sconvolto, guardai per ore l’immagine che si era imposta al mio pennello. Si chiariva nella mia mente l’esperienza estetica di questo secolo. “La Bellezza eterna si è fatta uomo in Gesù. Ha vissuto tutte le vicende della vita umana, le più sublimi come le più banali, le più gioiose come le più dolorose, fino all’abbandono, alla morte. Fino alla risurrezione. “A volte nell’arte contemporanea la bellezza è ridotta ad un grido inarticolato, ma così si esprime nel modo più totale. Dà a noi il suo Spirito. “Sembra morta, seppellita sotto la pietra del brutto. Ma il terzo giorno la tomba è vuota. Qualcuno ci dice che è risorto e che ci aspetta. “Ma non è la bellezza leccata, seducente, sdolcinata fino alla nausea, profumata come un fiore velenoso, eventualmente pia come un baciapile, in verità luciferina perché non incarnata. “La bellezza è forte, ardita, coraggiosa, paziente, non si fa valere, non si prostituisce. Può apparire agli occhi di tanti disarmonia, cacofonia, buio, perché, nella sua gloria, porta le stigmate della passione e della morte. Stai ultimando una serie di lavori intitolati “I Santuari. . . Nascono certo anch’essi da esperienze vitali” “Sì. Ricordo quando, in Palestina, ero salito sul versante infuocato del Monte delle Beatitudini girando le spalle al lago di Tiberiade e alla frescura delle Sette Fontane. Mi girai per guardare il lago e fui preso da una forte commozione per la bellezza del paesaggio che si dispiegava ai miei piedi. I campi di grano mietuti di quell’oro smagliante reso famoso dai quadri di Van Gogh, il lago blu, le montagne viola all’orizzonte e il cielo terso luccicante che sembrava il fremito di ali d’angeli, tutto mi parlava del Vangelo. Non si poteva immaginare scenario più adatto per la declamazione delle beatitudini. Non sapevo se Gesù era stato ispirato dalla bellezza di questo posto o se il posto era stato trasfigurato dalle parole del Maestro, ma fatto sta che questo paesaggio sembrava una finestra aperta sul Vangelo, un’icona delle beatitudini. “Mi tornò subito in mente un’esperienza simile fatta pochi giorni prima sul Monte Sinai. Avevamo lasciato in piena notte il monastero di Santa Caterina per scalare nel buio fino alla cima il monte dove Mosè ricevette le tavole della legge. Eravamo lassù all’alba. La vista si stendeva all’infinito nell’aria purissima di questo deserto di picchi di roccia. “Anche lì ero stato sconvolto dall’impressione che l’Antico Testamento era impresso nel paesaggio. La virilità del Sinai, la femminilità di Tiberiade: due bellezze che si addicevano così perfettamente ai due Testamenti dell’unica alleanza di Dio con gli uomini erano iscritte nei paesaggio come la legge nelle tavole di Mosè. “Mi sedetti per terra in mezzo alla paglia e dipinsi un acquerello come avevo fatto sulla cima del Monte Sinai con la consapevolezza di fare opera sacra. Questi due paesaggi erano dei santuari, dei luoghi dove Dio aveva lasciato traccia del suo passaggio. “Tornato a Roma decisi di dipingere un dittico, due paesaggi fatti per rimanere insieme, legati dalla loro stessa diversità, Tiberiade e Sinai e chiamai queste due opere Sanctuaire I e Sanctuaire II. “Ma mentre lavoravo a questo dittico, si affacciavano alla memoria altri luoghi che mi avevano procurato emozioni simili, dove mi era stata sensibile una particolare presenza di Dio: Il Monte Tabor, il Monte Ararat, le Cascate dell’Iguaçu, il mare a Olinda, il Monte Fuji, la Val Badia, l’Etna, l’Assekrem nel deserto del Sahara, e addirittura un luogo di consumo come la spiaggia di Rimini, girando le spalle alle luci false e ai rumori vani per contemplare la notte e ascoltare la cristallina musica del mare”. Tu sei artista e uomo di fede. Un percorso credo intenso e forse a volte accidentato. . . “Amo Dio Bellezza da sempre. Il mio ricordo più vecchio è nello stesso tempo un ricordo di Bellezza e di abbandono a Dio. Mi sono sentito chiamato all’Arte come mi sono sentito chiamato a dare la mia vita a Dio” Bellezza. All’epoca – negli anni Cinquanta – non era facile mettere insieme fede e arte, perché c’era un doppio pregiudizio fra chiesa e mondo della cultura e dell’arte. “Nell’estate del 1959 partecipai in Italia ad un convegno dei Focolari: Chiara Lubich, nella sua riscoperta del vangelo, evidenziava Dio come Bellezza, oltre che come bontà e verità. Parlava dell’artista come di “colui che è più vicino al santo”. Mi ha affascinato l’idea di essere santi di Dio Bellezza, non da solo ma insieme ad altri. Mi sono sentito non più diviso: ed ho pensato a tanti artisti della storia che magari non sono stati dei santi della Bontà o della Verità, ma certo hanno vissuto la loro chiamata alla Bellezza portandola fino in fondo spesso in modo eroico, seguendo quello che chiamerei la loro coscienza estetica, che poi è il loro rapporto più intimo con la Bellezza che è Dio”. Tu viaggi per il mondo contattando tanti artisti di ogni età e latitudine. Che impressione ne hai ricavato? “Da qualche anno vivo qui a Grottaferrata, dove ho ricominciato a dipingere. Vengono a trovarmi tante persone, ma è vero che anch’io viaggio per incontrare tanti artisti che condividono con me la voglia di costituire sempre di più una vera e propria famiglia tra gli artisti e tutti quelli che si sentono chiamati da Dio Bellezza. Ci vorrebbe tanta più conoscenza, tanta più solidarietà. Nel mio piccolo cerco di dare il mio contributo, per esempio con il mio sito web (www.flars. net/centromaria) dove presento centinaia di questi amici artisti” senza frontiere”. Un artista insegue sempre, anche se alle volte inconsapevolmente, un modello ideale. Quale è il tuo? “Il mio? Potrei parlarti a lungo della mia famiglia mentale a poco a poco allargatasi con Rublev, Beato Angelico, Michelangelo, Georges de La Tour, Cézanne, Baudelaire, Verlaine, Van Gogh, Maurice Denis, Dostoevskij, Picasso, Tarkovskij, Matisse e tanti altri artisti che sento vivi dentro di me. Ma se vuoi sapere chi è più profondamente ancora il mio modello ideale, risponderò: è Maria, la madre del Bell’Amore, cioè la madre della Bellezza eterna incarnata. Anch’io vorrei con la mia arte dare corpo alla Bellezza eterna, metterla al Mondo”.

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