Contro l’Aids una speranza

Un paese vasto quanto un quarto dell’Europa, con una popolazione stimata in 55 milioni di abitanti circa. Tra quelli a basso indice di sviluppo umano occupa il 155° posto su 173 paesi totali secondo le Nazioni Unite. Ha un tasso di mortalità infantile intorno al 30 per cento, ed il 74 per cento della sua popolazione non ha accesso alle cure sanitarie. È la Repubblica democratica del Congo, paese che dopo il lungo regime del generale Mobutu, è stato dilaniato da una guerra acuta e prolungata che ha destabilizzato l’intera regione e che ancora mostra rigurgiti e sacche d’instabilità. Fra le tante “piaghe” anche quella dell’Aids che interessa ben il 5,5 per cento della popolazione totale con punte elevate fra le persone dai 20 ai 49 anni e fra i bambini dai 0 ai 4 anni. È qui che l’Amu (Associazione per un mondo unito – Onlus), organizzazione non governativa di cooperazione internazionale, ha avviato di recente un progetto di prevenzione e cura proprio dell’Aids. Ne parliamo con il referente italiano Stefano Comazzi, e quello congolese, Marcel M’bula. “Non è che pensassimo di avviare un progetto di questa dimensione quando siamo andati lì un anno e mezzo fa, – mi racconta Stefano Comazzi -, l’idea è venuta parlandone con loro. Formalmente si tratta di una cooperazione tra l’Amu e l’Aecom, (Association pour l’Economie de communion en Congo), una ong congolese, secondo il nostro stile che in genere valorizza la controparte locale. Concretamente il nostro lavoro attuale consiste in quella che definiamo la formazione dei formatori. Cioè attraverso il contributo di sociologi, antropologi e professionisti di varie discipline, si tengono dei corsi nei quali viene considerato il fenomeno dell’Aids nella sua globalità. Le persone che prendono parte a tali corsi diventano capaci di formare a loro volta altre persone e sfruttando la vasta rete di rapporti già esistenti attraverso il Movimento dei focolari a cui ci ispiriamo, puntiamo ad unire alla formazione spirituale, tipica del movimento, una più specificatamente umana ed etica. Possiamo dire che è un esperimento che vorremmo po- ter condividere con altri. Infatti stiamo anche verificando la possibilità di collaborare con un’altra ong dalle caratteristiche simili alla nostra. Anche le chiese lavorano parecchio per sensibilizzare la gente e fornire le giuste informazioni. Vorremmo insomma arrivare ad uno scambio di esperienze significative a livello africano, dal momento che ce ne sono tante”. Marcel Mbula, professore presso la clinica universitaria di Kinshasa, si è specializzato in malattie infettive studiando anche all’estero, in Germania e Francia. “Che il Congo sia uno dei paesi maggiormente colpiti da questa malattia – esordisce – è dovuto al fatto che, come sappiamo, l’Aids non si trasmette solo per via sessuale ma anche attraverso il sangue. Nel nostro paese le infrastrutture sanitarie non sono adeguate e quindi anche questo aspetto non viene affrontato in maniera sufficiente, concorrendo così, insieme ad altri fattori, al moltiplicarsi dei casi di immunodeficienza”. E quali sarebbero questi altri fattori di cui lei parla? “Cominciamo dalla guerra – mi risponde – che è stata un fattore altamente destabilizzante. Agli effetti catastrofici che ogni conflitto porta con sé, va aggiunto infatti un ulteriore elemento. Nel nostro paese abbiamo avuto eserciti provenienti da paesi dove la prevalenza dei sieropositivi è molto elevata: l’Uganda, il Burundi, lo Zimbabwe, il Rwanda, la Namibia, quindi la violenza degli uomini di questi eserciti sulle donne continua ad essere un fattore di diffusione della sindrome. Tante altre donne che vivono in povertà, poi, si sono avviate alla prostituzione con le conseguenze che si possono immaginare. “Un altro aspetto che non facilita le cose è quello culturale. Rientra in questo ad esempio la credenza che l’Aids sia una punizione divina o che arrivi da laboratori di altri paesi che vogliono sterminare la popolazione dei paesi in via di sviluppo. C’è poi chi crede che si trasmetta attraverso mezzi “spirituali” come la stregoneria. “Da noi inoltre se un marito muore la moglie può essere sposata dal fratello e per cacciare gli spiriti del coniuge defunto deve avere relazioni sessuali sia con un membro della famiglia del marito che con uno sconosciuto. Tutte possibili occasioni di trasmissione del virus, come si può ben capire. “Un altro problema ancora è la poligamia e il numero frequente di relazioni extraconiugali. “Come medico reputo importante stabilire un dialogo con le persone che visito, aiutarle a capire che ci sono dei rischi a continuare questo tipo di relazioni. Ma certo l’ignoranza, la carenza di formazione di molte persone sono dati preoccupanti”. In questo panorama, quali sono state le misure sanitarie adottate? “Abbiamo percorso diverse tappe. All’inizio il governo era molto sensibilizzato e ha investito molti mezzi. Aiuti economici sono arrivati soprattutto da Stati uniti, Belgio, Francia, Germania. Verso gli anni Novanta la cooperazione internazionale è diminuita e ne ha risentito anche il programma nazionale. C’è stato un periodo in cui si è abbassata la guardia e non è più stata fatta prevenzione. Adesso è ripresa la cooperazione ed a poco a poco si rifanno i programmi. Certo bisogna recuperare una fase di abbandono da parte della sanità pubblica, cui ha fatto da supplente l’azione di organismi religiosi e privati, di varie ong che hanno assicurato assistenza in tanti posti dove essa era completamente assente. Ultimamente, comunque, è ripartito il programma nazionale che ha elaborato documenti normativi e definito nuove priorità a riguardo”. È sufficiente l’arrivo di contributi economici per affrontare il fenomeno? “Sicuramente l’aspetto economico non è irrilevante se consideriamo che l’Aids è una malattia per la quale esistono dei farmaci che però per la maggior parte dei malati hanno ancora dei costi proibitivi. Dunque l’accordo raggiunto di recente in sede Omc di abbassare i prezzi di queste medicine dovrebbe estendere almeno la possibilità di accesso agli antiretrovirali e migliorare la qualità della vita di tanti sieropositivi. Ma l’Aids è una malattia che va di pari passo con la povertà. In questo senso occorre lavorare molto prima di tutto per lo sviluppo integrale della popolazione. Gli aiuti dall’esterno dovrebbero essere solo un sostegno alle azioni locali”. L’Aids non è solo un problema sanitario ma porta con sé tutta una serie di risvolti sociali. Quali sono i più gravi? “Bisogna considerare fra le altre cose che i sieropositivi, proprio per il livello immunitario basso, sono più esposti di altri a malattie come la tubercolosi o la meningite, con ulteriori complicazioni. Tanti delle classi dirigenti vengono stroncati dall’Aids e questo porta gravi conseguenze, molte imprese ne risentono. Da noi poi una persona che lavora può sostenere 40-50 persone, se muore è una catastrofe. Tanti sono i malati che non sono più in grado di occuparsi dei loro figli, dei coniugi…”. In che modo dunque è più efficace intervenire? “Grazie a questo progetto dell’Amu abbiamo cominciato coi bambini della scuola un programma di “accompagnamento” insistendo sulla prevenzione. La nostra azione si inserisce nei quartieri poveri, fornendo agli adolescenti un corso di educazione sessuale completato con informazioni sull’Aids. Speriamo che siano questi stessi ragazzi ad educare i loro genitori. Certo è che bisogna ripartire dai giovani. Quelli a rischio, ad esempio, vengono sollecitati a sottomettersi al test perché non ignorino il loro status sierologico. Spero che quest’esperienza possa crescere e diventare un punto di riferimento per tanti Una volta padroneggiata poi la dimensione della prevenzione, dovremmo essere in grado di prendere in carico i malati. La tappa successiva del progetto prevede infatti una piccola clinica di cura ed un laboratorio”. Ma qual è la sua esperienza di medico a contatto quotidianamente con una realtà così dolorosa? “È un lavoro che mi entusiasma perché mi mette al servizio degli altri e mi fa incontrare l’uomo nel suo essere più profondo. Stare in contatto con gli altri, aiutarli, capire quello che succede nelle loro famiglie mi serve per far comprendere ai giovani come e perché bisogna prevenire. È una grande soddisfazione morale anche se dal punto di vista materiale non abbiamo ciò che ci spetterebbe. Trovare l’equilibrio fra il servizio alla comunità e la propria sopravvivenza è un continuo dilemma. “Il fatto che molti malati non abbiano i mezzi per curarsi, fare esami di laboratorio, acquistare medicine, è una grandissima sofferenza anche per noi medici. Cerchiamo di sostenere le famiglie come possiamo, sensibilizzando la comunità a prendersi carico di quei membri che sono malati e a sviluppare dei sistemi di solidarietà interna. Bisogna essere molto motivati per far bene questo lavoro”. In attesa delle decisioni dei “grandi” della Terra, meglio cominciare a muoversi di persona. Chi volesse partecipare al progetto può versare il suo contributo sul c/c postale n. 81065005 o sul c/c bancario 640053 presso Sanpaolo Imi Spa, Agenzia Grottaferrata (Roma), Abi 01025 – Cab 39140, intestati a Associazione “Azione per un mondo unito onlus” con la causale: “Progetto RdC”. Per informazioni: tel. 06.9367071; e-mail: amu@focolare.org.

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