Continuità o eversione?

A 50 anni di distanza dal Concilio, dal suo punto di vista laico, il filosofo indaga sulle novità disattese e le prospettive da incoraggiare.
La gioia del popolo romano per il Concilio

A questo punto del processo di progressiva sedimentazione e incessante rielaborazione delle più importanti novità apportate dalla grande “officina teorico-pastorale” costituita dal Concilio Vaticano II, è sicuramente possibile rendersi conto almeno di un fatto: che quella svolta epocale è ancora tutta da elaborare e che forse spetta proprio a noi farla fruttuosamente lievitare. Certo, molte cose sono cambiate tra gli anni Cinquanta e la metà degli anni Sessanta del XX secolo; ma molta strada deve essere ancora percorsa. Quel cantiere è infatti sicuramente ancora aperto; e spetta a tutti noi, appunto – credenti e non credenti –, comprendere come, proprio nel riconoscimento della non ancora compiuta realizzazione di quel grandioso progetto, sia custodita, forse, la stessa possibilità della sua più lucida e insieme profonda comprensione.
Le novità disattese, direi dunque, non vanno assolutamente elencate come una semplice lista di obiettivi che sarebbero ancora da raggiungere, e che dovrebbero comunque poter essere raggiunti così come ci si propone di raggiungere questa o quella meta determinata nel corso di qualsivoglia esistenza individuale. Per cui, l’unica promessa effettivamente disattesa, tra le molte e straordinarie intuizioni di cui si sarebbe fatto espressione il Concilio, è quella riconducibile alla convinzione secondo cui, attraverso di esso, potesse o addirittura dovesse essere raggiunto un risultato oggettivo in grado di far crescere il livello di consapevolezza della fede allo stesso modo in cui ogni nuova scoperta scientifica sembra destinata a far maturare il livello di conoscenza rendendo le teorie scientifiche sempre più ricche e per ciò stesso maggiormente esplicative.
 
In continuo confronto con la storia
 
Quel Concilio, insomma, avrebbe finito per insegnarci innanzitutto questo: che l’itinerario disegnato da qualsivoglia autentica esperienza di fede non può certo esimere gli umani da un continuo confronto con le sfide lanciate loro dalla potenza irrazionale della storia; la quale, dovrebbe anzitutto dissuaderci dal cercare vanamente riparo all’interno di un fede concepita come bastione fortificato – quasi che fosse davvero possibile lasciare al di là delle sue mura il groviglio di un dinamismo storico che i credenti sarebbero autorizzati a considerare inessenziale o in ogni caso non necessario al costituirsi di una religiosità matura e per ciò stesso libera.
Quel Concilio, dunque, avrebbe dovuto farci capire che solo il confronto continuo e incessante, per quanto doloroso, nonché difficile, con la storia – cioè solo una instancabile apertura alla vicissitudo temporis e quindi alle incessanti trasformazioni da essa in ogni caso prodotte – avrebbe potuto consentire alla fede di salvaguardare la propria costitutiva irriducibilità alla determinatezza della storia medesima. Salvaguardando per ciò stesso l’inconsumabile “eccedenza” di cui proprio il messaggio di Gesù ha voluto essere fedele testimone. Perciò, se quel Concilio continua ad essere così importante ancora oggi per tutti noi, ciò richiede comunque che non ci si affretti a ridurlo o in qualche modo identificarlo con questa o quella specifica riformulazione del patrimonio dottrinario comunque ereditato da una lunghissima e venerabile tradizione.
 
Tra novità e tradizione
 
Ecco perché diventa del tutto inessenziale, dal mio punto di vista, continuare a discutere su quale sia l’approccio ermeneutico più corretto nei confronti del contenuto dottrinario elaborato in quegli anni di svolta; e quindi schierarsi a favore dei continuisti piuttosto che a favore di coloro che insistono ad accentuare e sottolineare invece la portata eversiva dei documenti prodotti in quegli anni.
Continuità e innovazione, conservazione e apertura al nuovo non dovrebbero mai essere astrattamente contrapposte in seno alla vicenda costituita dalla storia fondamentalmente cristiana dell’Occidente moderno. Sì, si è dibattuto molto su quale dovesse essere la giusta interpretazione di un Concilio non a caso tanto discusso.
Ma, se è vero che, come si dice nel Dei Verbum (documento conciliare del 1965) «le parole di Dio, espresse con lingue umane, si son fatte simili al parlare dell’uomo, come già il Verbo dell’eterno Padre, avendo assunto le debolezze dell’umana natura, si fece simile all’uomo», allora non si dovrà mai dimenticare che le stesse parole elaborate da una lunga tradizione come quella custodita dalla Chiesa vanno accolte sì come verità, ma guardandosi bene dal farle diventare oggetto di una miope idolatria. Ossia, bisognerà impegnarsi con la massima forza possibile a riconoscere che la loro indiscutibile verità non rende affatto vani il dialogo e il confronto con altre testimonianze che della medesima eccedenza abbiano voluto farsi testimoni all’interno di altre e non meno rispettabili culture religiose.
Ecco un’altra importante acquisizione del Concilio Vaticano II; esso non può essere risolto in mera esaltazione o ipostatizzazione delle Scritture e della Tradizione su di esse costruita nei secoli, ma neppure può essere costretto a farsi astratta volontà di abbandono di quella stessa Tradizione per vuota brama di adesione al presente e alle sue novità. E proprio perché quella stessa Tradizione, nonché i suoi Testi di riferimento, dovranno essere continuamente messi non solo alla prova della storia e delle sue comunque imprevedibili provocazioni, ma sempre anche inscritti un dialogo inter pares in virtù del quale non si tratta certo di decidere chi abbia più ragioni in rapporto alla tenuta del proprio corpus dottrinale, ma di aprirsi ad un confronto con tutte le religioni della terra – e sempre nella ferma consapevolezza che è solo in rapporto a quel che non siamo che potremo corrispondere davvero alla nostra ineludibile e costitutiva insecuritas ed affidarla al possibile amore di un Dio che potrà essere di tutti proprio in ragione del suo non farsi davvero possedere da nessuno.
 
I confini delimitati
 
Il Concilio Vaticano II, insomma, mi sembra importante per averci innanzitutto invitato ad evitare le troppo facili prese di posizione; e a capire che, se per un verso avrebbe davvero poco senso cercare di condizionare la portata della Rivelazione alle sempre nuove esigenze messe in campo dai rilevanti mutamenti prodotti dal dispiegarsi temporale, per un altro verso non ci si dovrebbe neppure arroccare in una posizione meramente difensiva nei confronti della storia medesima, quasi che il compito primario della Chiesa fosse appunto quello di trasformare la dottrina in un dogma, rendendola il più possibile impermeabile alle provocazioni provenienti dal tempo storico e dalla sua spesso imprevedibile contingenza.
Ecco perché oggi lo disattende davvero proprio chi vuole costringere la sua portata innovativa entro ben determinati confini; e convincerci che sia davvero possibile distinguere gli elementi fruttuosi da quelli infruttuosi del suo lascito. Come se si trattasse di operare con un semplice bilancino e pervenire ad una misurazione in qualche modo oggettiva. Credo piuttosto che si tratti di incoraggiare innanzitutto quella sempre vigile apertura della dottrina cristiana – anche quella riformata dal Concilio Vaticano II – che, sola, potrà farci evitare ogni sterile ricaduta nell’idolatria… un’idolatria che, si badi bene, potrebbe assumere due forme opposte: e farsi tanto idolatria della tradizione quanto idolatria dell’innovazione. Ognuna delle quali finirebbe per farci dimenticare che quella di cui dovremmo continuare ad essere sempre fedeli testimoni è appunto l’ulteriorità che pone il messaggio cristiano sempre già oltre le sue infinite possibili determinazioni storiche.

* L'Autore è professore ordinario di Teoretica presso la facoltà di Filosofia dell'Università Vita-Salute del San Raffaele di Milano

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