Condannato per mafia e rispettoso delle istituzioni

Salvatore Cuffaro, ex governatore della Sicilia accetta la sentenza senza repliche. «E’ una lezione per i miei figli, devono avere fiducia nella giustizia e rispetto nelle istituzioni». Esempio o contraddizione?
Salvatore Cuffaro

La Sicilia é una terra strana. Può scandalizzare per la presenza dell’illegalità divenuta “normale” sistema di potere, ma può anche meravigliare per le azioni di alcuni suoi esponenti. Nel bel mezzo dello scontro senza esclusione di colpi tra Berlusconi e i pubblici ministeri della Procura di Milano, Salvatore Cuffaro, ex presidente della regione Sicilia non appena a conoscenza della sentenza della Corte di Cassazione che lo ha condannato definitivamente a sette anni di reclusione, ha deciso con una coerenza morale da far invidia, di andarsi a costituire presso il carcere romano di Rebibbia.

 

Ma andiamo con ordine e ricostruiamo la vicenda. Nel 2001, i sostituti procuratori, Gaetano Paci e Nino Di Matteo, aprono un’inchiesta sul governatore della Sicilia Salvatore Cuffaro. Il 5 novembre del 2003 parte l’inchiesta denominata “talpe alla DDA” con l’arresto di due insospettabili investigatori che lavoravano direttamente con i pubblici ministeri della procura di Palermo. Viene coinvolto l’allora Presidente della Regione, Salvatore Cuffaro. La notizia, oltre il coinvolgimento del Presidente della Regione, era la scoperta di una vera e propria “rete di spionaggio” costituita da sottufficiali dei carabinieri e della DIA (Direzione investigativa antimafia): Giorgio Riolo e Giuseppe Ciuro. I due sottufficiali in complicità con l’imprenditore Michele Aiello (prestanome del boss Bernardo Provenzano nel mondo della sanità) avrebbero rivelato notizie riservate d’indagini di mafia in corso. Il 2 novembre 2004, Salvatore Cuffaro viene rinviato a giudizio. L’1 febbraio 2005 inizia il processo di primo grado presso il tribunale di Palermo a carico di 12 imputati e due società. Il 18 gennaio 2008, il Tribunale condanna Cuffaro a 5 anni per favoreggiamento a singoli mafiosi e non all’intera organizzazione. Aiello viene condannato a 14 anni e Riolo a sette.

Il 23 gennaio 2010, la Corte d’appello, non solo conferma la condanna del Tribunale, ma riconosce l’aggravante di favoreggiamento a Cosa Nostra e condanna Cuffaro a 7 anni, Aiello a 15 anni e sei mesi e Riolo a otto anni. Cuffaro dietro forti pressioni politiche si dimette dalla carica di presidente della Regione. Infine la sentenza definitiva della Corte di Cassazione, che conferma la condanna a sette anni con la conseguente decadenza del seggio di Palazzo Madama, dove Cuffaro, nel contempo, era stato eletto.

 

E qui entra in gioco la “sicilitudine”. Cuffaro non ha voluto aspettare i cinque giorni previsti dalla legge per la notifica della sentenza e ha deciso di costituirsi immediatamente per scontare la pena per favoreggiamento aggravato alla mafia e rivelazioni di segreto istruttorio. « Rispetto la magistratura – ha detto a caldo Cuffaro – e andrò a costituirmi. Mi appresto a scontare la mia pena, come è giusto che sia». Frasi che non ammettono repliche, ma solo rispetto per quest’uomo. «Affronterò la pena – ha detto ancora Cuffaro – come la deve affrontare un uomo che ha servito le istituzioni e che in questo momento viene messo a sopportare queste prove. È giusto che sia cosi. L’ho lasciato come insegnamento ai miei figli, devono avere fiducia nella giustizia e rispetto nelle istituzioni».

Che dire?  “Chapeaux”! Massimo rispetto per l’uomo.

 

In questi anni ho lavorato parecchio per incarnare, anche nella mia esperienza quotidiana in città, il principio della “condanna del peccato e non del peccatore”. E non posso non applicarlo anche in questo caso. Comprendo il dolore suo e della sua famiglia: peraltro è la condanna più pesante inflitta ad un uomo politico in tutta la storia della Repubblica. Qualcosa dovrà pur significare! Penso che i suoi amici hanno tutto il diritto di farne un buon esempio del suo senso dello Stato. Anzi Cuffaro, dicono costoro, ha offerto con il suo comportamento, da imputato ieri e oggi da condannato, un modello esemplare.

 

Ma, attenzione, siamo in Sicilia, e vi sono le contraddizioni. Cuffaro, nonostante tutto e nonostante tutta la comprensione e il rispetto, è il terminale di un potere esercitato con tutti i mezzi dove, è, questo è il tema a mio avviso, non si è voluti andare tanto per il sottile. “Il fine giustifica i mezzi” ha dato ossigeno ad un sistema politico-clientelare che ha degradato la Sicilia oltre ogni misura, ma ha provocato, non lo dobbiamo dimenticare, il sacrificio di tantissimi servitori dello Stato che si sono voluti opporre. Siamo in Sicilia e dobbiamo accettare e vivere le contraddizioni.

 

Rispetto per il condannato Cuffaro, ma rispetto anche questa terra che ha vissuto e ancora vive momenti di violenza inaudita. Qualcuno, e lo devo registrare, più maliziosamente sostiene che in questa vicenda vi si legge tutta la “liturgia” dei mafiosi: l’accogliere con testa alta la condanna, come segnale dell’integrità dell’onore da ostentare agli “amici degli amici”. Appunto contraddizioni e messaggi. Cuffaro, infine, è imputato in un altro processo a Palermo, dove deve rispondere di concorso esterno in associazione mafiosa. I Pm hanno chiesto dieci anni di reclusione, comprensivi dello sconto di un terzo della pena previsto per il rito abbreviato scelto da Cuffaro. L’accusa riguarda le candidature di due esponenti politici nelle liste del CDU e del Biancofiore nel 2001. Entrambi, secondo l’accusa, erano sponsorizzati dalla mafia e Cuffaro per questo motivo li accettò nelle liste a lui collegare per l’elezione a presidente della Regione.

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