Colombia, la pace fragile

Un giovane cooperante italiano, da un anno nel Paese sudamericano, traccia un bilancio della nuova ricerca di pace. Gli accordi de l’Avana sono un passo in avanti ma lasciano molti punti interrogativi
La bandiera colombiana

«È finita l’orribile notte». Citando l’inno nazionale, nel settembre del 2016 il presidente colombiano Juan Manuel Santos celebrava così la firma dello storico accordo di pace con i guerriglieri delle Farc. «La lotta delle armi ora prosegue con le idee», gli faceva eco il comandante delle Farc Rodrigo Timochenko Londoño poco prima di chiedere perdono per le violenze provocate dalla guerriglia. Cinquant’anni di conflitto e quattro di negoziati per arrivare ad un accordo tanto eccezionale, in un momento di recrudescenza di guerre e terrorismi a livello mondiale, da essere premiato con il Nobel per la Pace, conferito proprio a Santos. A distanza di alcuni mesi, come sta proseguendo il processo di pace colombiano?

Quella della Colombia sembra una pace fragile. E non solo perché in ottobre l’accordo tra stato colombiano e Farc è stato rigettato da un referendum, per essere poi ridiscusso e riapprovato dal parlamento poche settimane più tardi. Il trattato prevede rinuncia alle armi e ritorno alla vita civile per i membri della guerriglia, risarcimenti alle vittime, partecipazione politica dell’ormai ex esercito guerrigliero. Gli obiettivi sono stati raggiunti solo in parte: se sono già attive le zone di transizione in cui i guerriglieri stanno consegnando allo stato le proprie armi, è ancora in corso il processo legislativo che porterà le Farc a sedere nel parlamento colombiano. Intanto l’accordo con le Farc ha convinto l’Eln, altro grande gruppo guerrigliero attivo nel conflitto, a sedersi al tavolo delle trattative, un processo in corso a Quito dallo scorso febbraio.

I colombiani credono alla pace, per quanto fragile. Credono alla pace gli abitanti di Ciudad Bolivar, quartiere nel sud di Bogotà in gran parte autocostruito dai desplazados, i rifugiati costretti a fuggire dai territori in guerra. Ne incontro alcuni nei giorni prima del referendum. Ciascuno di loro ha perso qualcosa: Ines i tre figli, costretti a fuggire in Italia per non doversi unire alla guerriglia; Felix la casa e le terre, abbandonate nel nord del paese; Elizabeth una sorella, uccisa insieme il marito da non si sa ancora quale delle parti in guerra tra loro. Nonostante questo, tutti loro avrebbero votato sì al referendum. Anzi, non pensavano possibile rigettare l’accordo già firmato. Secondo Carlos il paese ha bisogno di andare avanti, nonostante le molte voci contrarie – la più rumorosa, quella dell’ex presidente Alvaro Uribe, fautore della repressione armata – e nonostante siano rimaste ancora inesaudite le promesse di venir risarciti per quanto perso durante il conflitto.

Eppure «la fine del conflitto non è l’inizio della pace». Lo afferma Humberto de la Calle, capo della delegazione governativa nei negoziati con le Farc. La cronaca delle ultime settimane sembra confermare le sue parole. Vecchie e nuove fazioni armate stanno occupando i territori lasciati dalle Farc, approfittando del vuoto di potere per prendere il controllo di attività redditizie come commercio della cocaina e attività estrattive illegali. Decine di attivisti e leader politici locali continuano ad essere misteriosamente uccisi nei dipartimenti rurali della Colombia. Infrastrutture e forze armate sono stati oggetto di nuovi attentati, attribuiti all’Eln. E intanto viene vietata la partecipazione al Congreso Nacional de Paz ai rappresentanti di Farc e Eln.

L’inizio della pace è l’inizio della costruzione di un nuovo Paese. Un Paese che sappia affrontare i grandi temi politici, economici e sociali che ne compromettono lo sviluppo. La Colombia può contare sulla terza biodiversità al mondo, sul posizionamento strategico tra Atlantico e Pacifico, sul proprio patrimonio materiale e immateriale, ma allo stesso tempo è un esempio emblematico di Stato fallito, almeno secondo quanto raccontano gli economisti statunitensi Acemoglu e Robinson nel loro “Perché gli Stati falliscono”. La Colombia mostra uno dei più alti tassi di disuguaglianza di tutta l’America Latina, mentre lo Stato deve ancora misurarsi con altri tre grandi attori – gruppi guerriglieri, formazioni paramilitari, cartelli del narcotraffico – che sono al tempo stesso conseguenza e causa della decennale instabilità colombiana.

Oltre a rimarginare le ferite della guerra, si parla di come ricostruire una società coesa, lottando contro il narcotraffico, promuovendo una nuova riforma agraria, ricreando le condizioni per lo sviluppo delle zone rurali per troppo tempo teatro di guerra. Questioni al centro dell’accordo di pace, per ottenere le quali si prevedono almeno vent’anni di lavoro in un Paese che decenni di conflitto hanno trasformato profondamente: intere zone rurali sono state lasciate a se stesse, abbandonate dalle comunità in fuga dal conflitto, mentre le città sono cresciute a dismisura (con la sola Bogotà che oggi ospita circa un quarto della popolazione colombiana). Nelle spille a favore della pace, nei mille murales sparsi per le città, nei discorsi di studenti e anziani, si respira la consapevolezza che la pace è necessaria e che si tratta di una costruzione a cui tutti possono contribuire. Anche se il delicato equilibrio tra opportunità e incertezze del processo di pace non lascia ancora presagire che piega prenderà il fragile futuro della Colombia.

 

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