Cofondatore dei Focolari

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A volte m’è stato chiesto: “Qual è stato il momento più bello della tua vita?”. Non ho saputo rispondere, forse perché, tra gli inevitabili dolori d’ogni esistenza, molte sono le gioie che Dio manda. Ma se oggi mi si ripetesse questa domanda, risponderei senza esitazione che uno dei momenti di più grande gioia l’ho provato durante la festa dell’Immacolata del 2000, quando, di buon mattino, ho ricevuto una lettera. Era di mons. Pietro Garlato, allora vescovo di Tivoli: mi annunciava la sua decisione di far avviare il processo di beatificazione di Igino Giordani “perché la chiesa tutta trovi in lui un modello, un testimone del vangelo, laico fedele e modello di comunione “. Mi commossi, ricordo, tanto più per il fatto che non da noi era partita quell’iniziativa. Era stato lo Spirito Santo ad ispirare un vescovo, era stata la chiesa. In questo tempo oppresso dalla paura del futuro, più che mai c’è domanda di modelli di riferimento, di certezze, c’è sete di Dio. E Igino Giordani può davvero essere un modello per l’uomo di oggi: sposato, padre di quattro figli, aveva fatto l’esperienza della famiglia. Uomo di cultura, scrittore, ecumenista, agiografo, giornalista, uomo politico, aveva dovuto confrontarsi con tanti problemi della società e non solo. Quando l’ho incontrato, nel ’48, non avevo mai conosciuto fino allora una persona che, pur coniugata – noi prime focolarine e focolarini eravamo consacrati a Dio – avesse i nostri stessi ideali, le nostre stesse aspirazioni. Giordani era una persona aperta sulla chiesa e su tutta l’umanità. Era tale in lui l’amore verso Dio e il prossimo che ha impersonato davvero il nome col quale era chiamato nel movimento: “Foco”, fuoco. Nella vita aveva condotto una grande battaglia. Speranze quasi disperate, attese sofferte avevano ospitato il suo cuore da tutta la vita. Di una di queste è testimonianza eloquente una sua pagina in cui confida di partecipare, come tanti, “di quella specie di complesso di inferiorità per cui – scrive – noi laici e soprattutto noi coniugati ci ritenevamo una razza inferiore”, “sembravamo il proletariato spirituale”. Era la sofferenza per “la separazione che si era creata nella chiesa lungo i secoli, prima del Concilio Vaticano II: di qua i religiosi, il clero, e di là i laici”. Tanto da degenerare con “uno slittamento del clero nel clericalismo, del laicato nel laicismo”. E sognava un ritorno ai primi secoli della chiesa quando sant’Agostino chiamava i padri di famiglia “compagni nell’episcopato” e per san Giovanni Crisostomo il coniugato doveva vivere come il monaco con in meno il celibato. Cristiano tutto d’un pezzo, era in attesa di un nuovo soffio di vita cristiana. E quando l’ha trovato, attraverso un primo contatto col nostro movimento, ha annotato sul suo diario: “Era la voce che, senza rendermene conto, avevo sempre atteso: metteva la santità a portata di tutti, toglieva i cancelli che separano il mondo laicale dalla vita mistica. Metteva in piazza i tesori d’un castello a cui solo pochi erano ammessi. Avvicinava Dio: lo faceva sentire padre, fratello”. E, per acquistare questi tesori, ha “venduto tutto”, con un distacco completo da tutto ciò che possedeva e soprattutto da ciò che era. Ma, come promette il vangelo, quando “il chicco di grano marcisce e muore, non rimane solo, ma porta molto frutto” (cf Gv 12, 24). La sua presenza nel movimento nascente, la profonda unità con tutti, che poggiava sul suo “nulla d’amore”, ha suscitato in quest’opera un balzo di qualità, è nato, per lui, qualcosa di nuovo. Pur avendo noi quale fine della nostra vita quel “che tutti siano uno” (cf Gv 17, 21) che Gesù aveva invocato dal Padre prima di morire, da perseguire attraverso il carisma che lo Spirito Santo ci aveva donato, onde contribuire a sanare i mali del nostro tempo, è stato lui ad aiutarci a tenere l’anima sempre spalancata su tutta l’umanità. Non solo. Riuscì a carpire dal cielo, direi, qualcosa che sembrava impossibile per uno sposato e cioè una verginità spirituale che sarebbe apparsa, in seguito, per molti e molti nella chiesa come una nuova vocazione. Poteva sembrare contraddittoria in sé stessa: chiamata ad essere sposati consacrati, ma con lui è nata, atta a portare la santità fuori dai monasteri, nel mondo. Ricordo quel giorno – eravamo agli inizi degli anni Cinquanta – quando un drappello di focolarini e focolarine stavano per essere consacrati a Dio. Giordani, che vedeva altissima la vocazione alla verginità, la elogiava con parole sublimi. È stato allora che gli dissi pressappoco così: “Anche se la verginità ha un peso diverso dal matrimonio, alla fin fine è l’amore che conta. Infatti, in Paradiso, non andranno i vergini o i coniugati in quanto tali, ma coloro che hanno amato”. E continuai: “A te, che cosa manca? Se anche tu ami, come noi vogliamo amare, Gesù crocifisso, se per lui rimani staccato da tutto, dalle tue idee, dai tuoi libri, dai tuoi campi, dalla tua vita; se egli crocifisso è veramente tutto per te, Dio ti riempie facendoti carità viva per tanti”. E gli proposi: “Perché non offri anche tu all’altare questa tua consacrazione a Gesù crocifisso, per essere come lui, l’amore?”. Il giorno successivo, alla messa, Giordani, circondato dai focolarini consacrati a Dio, lo ha fatto. E da quel momento non è rimasto solo. Subito c’è stato chi lo ha seguito con questa nuova chiamata e diverrà, con questo, lievito per centinaia di migliaia di famiglie impegnate ad essere “piccola chiesa”, cellule vive della società. Abbiamo sempre visto, inoltre, in Giordani il “tipo” dell’umanità di questo tempo. Era forte in lui l’ansia che tutta l’umanità fosse percorsa da quella corrente d’amore che il movimento suscitava, capace di rinnovare e trasformare la società. Era consapevole che il mondo oggi aveva urgente bisogno di un supplemento d’anima per non soccombere. Giordani ha saputo vivere eroicamente, in un continuo crescendo, quel distacco radicale che esige il vangelo. E questo suo ricchissimo patrimonio spirituale è rimasto ed è alla radice dello sviluppo di quest’opera non solo nel mondo della famiglia, ma anche nel mondo giovanile, nel campo dell’ecumenismo. Lui poi ha concorso ad aprire ogni ambito della società all’influenza del nostro carisma, sicché oggi comincia ad essere invasa da quello Spirito che fa nuove tutte le cose: il mondo politico, col Movimento politico per l’unità; quello economico, con l’Economia di Comunione; e poi l’arte, la cultura, la teologia, la filosofia, l’economia, la pedagogia, le comunicazioni e così via. Giordani era una persona straordinaria. Aveva indubbiamente il dono speciale di confondatore. Più passa il tempo, più scopriamo la levatura spirituale della sua personalità. Ed essere fondatori o confondatori di un’opera che la chiesa riconosce sua, comporta un’azione così molteplice e complessa della grazia di Dio, impulsi dello Spirito Santo, richiesta di sofferenze spesso penetranti e prolungate, elargizioni di grazie di luce e di amore non ordinarie, che solo l’illuminato studio della chiesa sapranno penetrare e mettere sul moggio, perché questo suo cammino di santità sia luce per molti. GABRIELE DE ROSA, S.J. IL PERSONAGGIO Collocherei la figura di Giordani in quella esigua schiera, dobbiamo parlare proprio di esigua schiera, di politici che si distinsero per la grandissima tensione morale e spirituale, con la quale vissero gli anni, i mesi, i giorni dell’agonia della democrazia aventiniana; egli fu una delle voci più forti che si ribellarono alle leggi della tirannia. Non andò in esilio, ma visse in Italia come se fosse in esilio. Questa condizione di Giordani, di uomo che vive fra gli uomini ma come se fosse in esilio, è la cifra che ci consente di avvicinarci, forse, anche alla sua vocazione religiosa. Le sue rigorose e intransigenti scelte politiche, il suo linguaggio pungente, acceso, da pubblico ministero, alla vista dei compromessi e dei cedimenti davanti alle accattivanti sollecitazioni del tiranno, hanno un fondamento etico e religioso insieme. C’è una storia di Giordani, che fa parte della storia politica, ma c’è anche una storia del mistico Giordani e questa è, come l’altra, bellissima. Quando noi storici abbiamo compiuto gli scavi e le ricerche necessari per capire le circostanze in cui un Giordani o uno Sturzo o chi altri si voglia abbia operato, quando noi ci siamo messi l’animo tranquillo, per quel che riguarda le responsabilità del nostro mestiere di storici, se vogliamo affrontare il discorso sul “fuoco interiore di Giordani”, allora dobbiamo fermarci e cambiare registro. Pensiamo al Diario di fuoco, di cui abbiamo letto alcune pagine, all’incontro con la Lubich, la scoperta del Movimento dei focolari. Non so come si possa camminare con la stessa sicurezza con la quale procediamo nella ricerca di storia politica o sociale. Certo possiamo individuare le fonti letterarie, i sacri testi, le occasioni, ma resta la difficoltà di decifrare quella che io chiamo la “cultura del silenzio”. Michel De Certeau ha già sottolineato i limiti della ricostruzione della vita dei mistici, e Giordani fu anche un mistico: quella vita non si riuscirà mai a riprodurre così come fu: “si è perduto qualcosa, che non tornerà”. Le nostre sono solo approssimazioni, importanti, documentatissime, articolate, ma approssimazioni.

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