Cinquant’anni fa su Città Nuova

Dosvidania Pasternak! Boris Pasternak nel bosco presso la sua dacia di Peredelkino, dove morì il 30 maggio 1960. Nel 1958 gli era stato conferito il premio Nobel per la letteratura.
Boris Pasternak

Il primo giugno, l’agenzia Tass ha annunciato il decesso dello scrittore Boris Pasternak, avvenuto il 30 maggio, dopo una lunga e grave malattia. Pasternak aveva 71 anni. È stato sepolto in un piccolo cimitero, presso la “dacia” di Peredelkino in cui da venti anni viveva, e i funerali si sono svolti col rito religioso. Per conoscere questa figura, conviene cercarla nelle sue opere. Una figura forte e coraggiosa quella di Pasternak, un’intelligenza che non si è lasciata immeschinire: non parla secondo il linguaggio ufficiale del regime: ha una sua visione del mondo, della vita e della storia, che si possono riconoscere sostanzialmente impregnate di cristianesimo. Chi non ricorda con commozione certe intuizioni espresse in quello che è stato il suo capolavoro Il dottor Zivago? Quel suo affermare che occorre, per avanzare nella conquista del tempo, una spinta «… un’attrezzatura spirituale e, in questo senso, i dati son già tutti nel Vangelo». Grandiosa la strofa con cui conclude il libro, nella visione della storia confluente in Cristo: «Scenderò nella bara, e il terzo giorno risorgerò – e, come le zattere discendono i fiumi, – in giudizio, da me, come chiatte in carovana – affluiranno i secoli dall’oscurità».

Sono ben note le vicende di questo romanzo, il cui protagonista è tanto simile all’autore e che, dopo il rifiuto dell’editrice moscovita alla pubblicazione, fu edito per la prima volta in lingua italiana. Nel 1958 venne dato a Pasternak il premio Nobel per la letteratura, premio a cui egli dovette rinunciare in seguito alla dura reazione delle autorità sovietiche. Dopo Il dottor Zivago l’ostilità dei circoli letterati e culturali sovietici nei riguardi di Pasternak prese forme violente: ma egli chiese di restare nella sua terra, la «matuska Rus – la madre Russia – incomparabile, celebre madre, il cui nome risuonava oltre i mari, martire, testarda, stravagante, monella, creata da Dio, con le sue trovate sempre grandiose e fatali e sempre imprevedibili».

In lui è contenuto, e lirizzato, tutto il dramma dell’anima russa, ricca di misticismo e venata dal pessimismo e insieme dalla speranza, una speranza che questi suoi versi recenti mettono in luce particolare: «… sono ormai vicino alla tomba – e son convinto che verrà il momento – in cui lo spirito di Dio avrà la sua vittoria – sulla perversità e l’infamia».

Guglielmo Boselli

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