Chiesa, un 2007 sociale

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Nel prossimo ottobre si terrà a Pistoia e a Pisa la Settimana sociale dei cattolici italiani – per di più nel centenario dell’iniziativa -, sul tema del bene comune. Il 2007 sarà arricchito anche dalla riflessione sulla Populorum progressio, un’enciclica di capitale importanza sui temi del lavoro e dell’economia, pubblicata giusto 40 anni fa da Paolo VI. Ma l’anno appena iniziato riceve in eredità la ricca esperienza dell’assise della Chiesa cattolica, tenutasi a Verona nello scorso ottobre. Il documento conclusivo di quei lavori sarà presentato in maggio all’assemblea dei vescovi. È un patrimonio da non sottovalutare nei risultati raggiunti e nelle prospettive aperte. Lucia Fronza Crepaz ha partecipato al convegno ecclesiale nella delegazione del Movimento dei focolari. Sembra siano passati tre anni e non tre mesi dall’appuntamento di Verona. Nessuno ne parla più. Se lo ricorda ancora? Certo. Al ritorno a casa, aggiornando subito figli e marito, mi ritrovai a comunicare prima di tutto la bellezza di quell’esperienza ecclesiale. E quel senso di bellezza mi pervade tuttora. Perché ricorre al paradigma della bellezza? Mi sono trovata a dire: beata quella società che ha al suo interno dei cristiani. Niente di autocelebrativo, mi creda, né orgoglio di appartenenza, ma mi nasceva dalla constatazione di quella grande carica d’amore che avevo percepito a Verona verso l’umanità e il suo cammino. Lì c’era un piccolo popolo, immerso dentro l’Italia, che non si chiudeva sul proprio destino associativo, ma si faceva carico delle sofferenze e delle domande della gente con cui condivide la storia. Cento giorni di distanza hanno sedimentato le emozioni. Cosa le è rimasto più in evidenza? Una forte e caratteristica comunione ecclesiale. Come tanti, anch’io mi sono avviata verso Verona con la preoccupazione di andare ad un’assise già segnata dai documenti del Comitato preparatorio. Aprendo il sito del convegno, però, lessi la sintesi dei contributi delle diocesi e dei movimenti sulle varie tematiche, e maturai la convinzione che Verona non sarebbe stato un appuntamento celebrativo, perché i delegati sarebbero arrivati già espressio- ne di un lavoro di comunione radicato dentro i propri ambienti. C’è stata qualche proposta che rilancerebbe volentieri? Soprattutto un’idea di Savino Pezzotta, che, credo, gli sia stata ispirata anche dalla comunione tra gruppi ecclesiali che si sta costruendo in Retinopera. Egli propose di dare vita nella realtà ecclesiale ad un luogo in cui i politici cristiani – ed aggiungerei: tutti i laici che hanno in qualche modo delle responsabilità sociali – possano crescere nel loro discernimento e rafforzarsi su quei valori che precedono e danno significato alle varie legittime appartenenze . È un’idea con un futuro? È stata sottolineata dal cardinal Ruini nel suo ricco intervento conclusivo, quando ha invitato a tenere presente la differenza tra il discernimento rivolto direttamente all’azione politica e quello, precedente, relativo all’elaborazione culturale e alla formazione delle coscienze. Al riguardo, mi viene in mente la sana distinzione che individuava Igino Giordani. Che tipo di distinzione? Giordani temeva i politici cattolici, i giornalisti cattolici, i sindacalisti cattolici, mentre sperava di poter incontrare nella sua vita molti cattolici che facessero politica, cattolici che facessero i giornalisti, cattolici impegnati nel sindacato, profondamente ispirati dalla propria appartenenza alla Chiesa e coltivati in questa, capaci di profezia, competenti e responsabili nella propria autonomia, senza bisogno di ulteriori aggettivazioni. Cattolici e politica: vivace diversità, sino a spaccature dentro i gruppi ecclesiali e nelle comunità parrocchiali. C’è qualche indicazione del convegno da riprendere? Ho preso parte alla riflessione sul tema della cittadinanza. Nel gruppo, ho avuto la netta sensazione che questa chiesa sia capace di raccogliere la sfida che ci attende, contenendo e sanando i conflitti e le divergenze laceranti che bloccano la produttività dei cattolici in politica oggi. Cosa la fa essere così sicura? Perché ho visto che le diversità si componevano, per diventare ricchezza, nella comune adesione alla scelta di essere testimoni. Padre Sorge, in un articolo su Civiltà Cattolica, individua nella via della testimonianza la felice sintesi tra la cultura della mediazione di Paolo VI e la cultura della presenza di papa Wojtyla. Quest’opzione ha chiarificato anche un’altra necessaria unità, quella tra dialogo e identità. Termini che oggi, sulla spinta delle divisioni insanabili della società e della politica, sono vissuti come antitetici baluardi di appartenenza. La scelta di essere testimoni richiede entrambi i lineamenti: la coltivazione dell’identità, radice necessaria di ogni vero incontro, e il dialogo, condizione altrettanto necessaria di ogni incontro che sia ad un tempo rispettoso e fruttuoso. Tra le indicazioni emerse al convegno scaligero, quali possono costituire le priorità per la Chiesa? Per me resta cruciale quel passaggio del discorso di Benedetto XVI in cui indicava che la strada maestra per l’evangelizzazione è l’esperienza della chiesa dei primi secoli. Quella Chiesa, ha ricordato, possedeva tre caratteristiche: una fede amica dell’intelligenza, una prassi di vita caratterizzata dall’amore reciproco, un’attenzione premurosa ai poveri. Un programma vasto, che può risultare generico senza una valida elaborazione. Fede amica dell’intelligenza: dove cominciare? Il primo obbiettivo, per me, è passare dalle tante buone pratiche, di cui molte volte siamo esperti, ad una capacità progettuale più complessa. Ma questo può essere frutto solo di un impegno culturale sempre più approfondito, in cui esperienza vitale ed elaborazione teologico- culturale – aspetti indissolubilmente legati l’uno all’altro (e ciò rappresenta già di per sé una vera novità nel panorama culturale attuale) -, ci portino a saper riproporre oggi la rivoluzione evangelica. Questa cultura può essere solo dialogica, al nostro interno, fra le nostre diversità, e con l’esterno. Cosa ne consegue? Una sorta di ulteriore pista. Mi spiego. Oggi la fondamentale vocazione del cristiano – ha scritto Chiara Lubich all’Assemblea plenaria del pontificio Consiglio dei laici – è quell’amore reciproco che genera comunione, che costruisce comunità. Sono perciò convinta che i determinismi sociali, che stabiliscono che le nostre convivenze siano destinate a frammentarsi fino ad esplodere, possono essere bloccati se un gruppo di persone, motivate nelle loro scelte, immettono nella società il capitale sociale di relazioni autenticamente fraterne. E la fraternità, se evangelica, cioè universale, è inclusiva e, per questo, contagiosa. Basta fare comunità e i problemi trovano soluzione? Un momento. La scelta di costruire comunità non ci allontana dagli interrogativi che oggi pone la storia e non ci isola dalle sue fratture, ma è per noi il retroterra sostanziale e imprescindibile di ogni possibile risposta. Retroterra necessario, ma anche sufficiente? Vede, alla radice delle grandi domande di oggi si scorge un elemento: la mancanza di comunione tra gli uomini. Penso al bisogno di comunità globale, penso all’innegabile diffuso humus di ingiustizia sociale e politica che è alla base dei terrorismi, penso alla difficoltà di avere davanti agli occhi le generazioni future. Al cuore di problematiche così apparentemente frastagliate, c’è un’unica domanda di prassi di comunione. Le potenzialità della risposta che siamo in grado di offrire come cristiani stanno in questa capacità di comunità. A prescindere da chi non crede? È chiaro che la risposta comunitaria non è espressa in modo esclusivo dai cristiani, ma senza dubbio esiste una peculiarità insostituibile che è evangelica: Dove due o più sono uniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro, afferma Gesù nel Vangelo di Matteo. Di conseguenza, su questa radice, la nostra specifica modalità di azione è quella in rete, che ci chiama a fare rete dovunque e comunque. L’opzione per i poveri indicata dal papa va attuata nei mutati contesti. Quali novità servono? L’attenzione agli ultimi resta una direttrice precisa. Tuttavia, la soluzione cristiana non è lo stato compassionevole, ma una società costruita sulla misura del minimo, che rende la convivenza più vivibile per tutti. Questo passa da una seria capacità di progettazione politica, ma procede anche dalla decisione di assumere stili di vita diversi, personali e familiari. Gli atteggiamenti consumistici della nostra società e cultura hanno contagiato i rapporti umani: chi non produce è merce in esubero da scartare. La scelta profetica per i poveri oggi diventa oggi strategica pure dal punto di vista missionario: se c’è uno specifico modo di incontrare Gesù, è quello di rivolgerci proprio ai minimi.

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