Chiedo una pausa

Concedersi un anno sabbatico nel nostro Paese è un’aspirazione ancora per pochi.
Pep Guardiola

I più lesti nell’invocare la necessità di un anno sabbatico di questi tempi sono gli allenatori di calcio, primo fra tutti Pep Guardiola, stanco di reggere le pressioni di un club d’eccezione, il Barcellona, con il quale ha vinto in quattro anni 13 trofei nazionali e internazionali. Ma anche chi ha raggiunto risultati molto più modesti dalle nostre parti dice di non farcela più e di volersi concedere una pausa. A fine campionato, e di un campionato come il nostro che non si fa invidiare da molti altri per numero di tecnici esonerati, si può capire.
È evidente che non sono le uniche categorie di persone desiderose di invocare il time out; forse, però, sono fra le poche che possono concederselo senza problemi, né di natura economica (con quello che guadagnano!), né di carriera: nella maggior parte dei casi, presa la decisione di rimettersi in gioco, non rimangono disoccupati. Vale per tutti la comprensione che «nella vita c’è altro», come ha affermato il giovane mister del Barcellona. Ed è proprio l’importanza di questo “altro” dal lavoro, dalla carriera, dalla routine che spinge tanti a staccare la spina e, nella maggior parte dei casi, a partire per riappropriarsi del proprio tempo, ri-orientare le proprie scelte di vita, dedicarsi ad esperienze extraprofessionali, fare volontariato, conoscere una lingua, aprirsi al mondo.
 
L’anno sabbatico, o il gap-year, come lo chiamano gli anglosassoni, molto più abituati di noi a concederselo, è una pratica che in Italia sta cominciando a muovere i primi passi; anche se, a dire il vero, quelli che sognano di poterlo realizzare sono soprattutto i giovani, magari tra una fase di studio e un’altra. L’espressione – anno giubilare o sabbatico – era usata dagli antichi ebrei per indicare il periodo durante il quale si lasciavano riposare le terre (dodici mesi ogni sette anni), si condonavano i debiti e venivano liberati gli schiavi. Una pausa dunque, sostanzialmente, di libertà.
Nel nostro Paese tale possibilità è prevista dalla legge 53/2000 (vedi box), ma una certa reticenza di tipo culturale e l’esistenza di problemi reali spesso non facilitano la messa in atto di una simile decisione.
Secondo gli esperti di selezione del personale, presentare un curriculum che attesta un tempo dedicato ad esperienze extralavorative può risultare una carta vincente in quanto sintomo di intraprendenza, determinazione, capacità di rischiare, di non “accomodarsi”. Spesso chi rientra da un anno sabbatico torna più motivato, sollevato da quella “sindrome da stagnazione” che colpisce anche i giovani professionisti e tanto più quelli più avanti negli anni.
Ma non possiamo nasconderci che, per come va il mercato del lavoro, qualche freno pure per le più ardite personalità esiste. D’accordo, si è coperti dalla legge, ma chi si può permettere di stare un anno senza stipendio? E cosa succede al ritorno, si rientrerà nel circuito lavorativo come se niente fosse successo o qualche collega ne avrà approfittato per farsi spazio? Interrogativi legittimi, e non gli unici, che possono essere superati da una forte motivazione che muova a riscoprire sé stessi e gli altri; oppure da una grande delusione, da quel dire: «Non ce la faccio più a vivere così, voglio trovare qualcosa di diverso»; o ancora da una pesante insoddisfazione perché i soldi e la carriera non sono tutto nella vita; o forse, semplicemente dal credere che ne valga la pena.
 
Cosa prevede la legge
 
Il congedo formativo è regolato dalla legge 53 del marzo 2000, conosciuta come legge Turco. Essa prevede che i dipendenti pubblici o privati, con almeno cinque anni di anzianità di servizio presso la stessa azienda, possano chiedere la sospensione del lavoro per un massimo di 11 mesi. In questi mesi il dipendente conserva il posto di lavoro, ma non percepisce lo stipendio e non incrementa i contributi né l’anzianità di servizio. Il dipendente però, solo nel caso in cui abbia otto anni di anzianità nella stessa azienda, può chiedere un anticipo del trattamento di fine rapporto per sostenere le spese. Il congedo non è cumulabile con le ferie e deve essere accordato dal datore di lavoro dopo la valutazione del progetto di formazione di chi lo richiede.

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